OSCAR 2022, “SPENCER”: PABLO LARRAÍN RINUNCIA E SFUGGE AI CLICHÉ DEL CINEMA POLITICO

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di Mariantonietta Losanno 

In generale, qualsiasi (buona) narrazione moltiplica le nostre percezioni. Quella autobiografica, però, è una scelta narrativa “atipica”; se da un lato, infatti, dovrebbe essere caratterizzata da una totale oggettività, dall’altro può essere influenzata dalla scelta (in questo caso, del regista) di che immagine si vuole dare di un personaggio. Scegliendo, cioè, di distaccarsi dal contesto storico – lasciando che rimanga “solo” una cornice – per concentrarsi sulla persona, o decidendo di raccontare un aspetto specifico (anche poco noto) del protagonista, tralasciando tutto il resto. Pablo Larraín dipinge la “sua” Lady D. con freddezza, descrivendola come una “principessa che non voleva diventare regina”, che voleva decidere come vestirsi, sognava di abitare altrove e “guidava controcorrente”. 

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Il regista fornisce la sua chiave di lettura di un personaggio complesso e “inesauribile”; rielabora la Storia spingendola “oltre” e scegliendo di focalizzarsi su specifici dettagli (forse) esasperandoli. Diana appare come una “vittima”, costantemente in lotta con le sue paranoie, con gli sguardi giudicanti degli “altri”, con le sue nevrosi. Soffre, si aliena, si perde; l’unica cosa che la tiene in vita è il legame con i suoi figli. Nessuno le può imporre chi essere o come comportarsi. Tutto quello che nelle fiabe ha inizio con “C’era una volta…”, in “Spencer” comincia con “non c’è più”. Diana Spencer non c’è più. La sua insofferenza la porta a disorientarsi al punto tale da diventare nemica di se stessa, ossessionata, oppressa. Kristen Stewart (candidata al Premio Oscar 2022 come Migliore attrice protagonista, vinto da Jessica Chastain per “Gli occhi di Tommy Faye”) pur rievocando, non cade mai nell’ imitazione. Un ritratto che ricorda quello di “Jackie” in cui Larraín – attraverso Natalie Portman – raccontava di Jackie Kennedy muovendosi tra verità e favola; cercando, cioè, l’identità “concreta” dietro quella “fittizia” in Jacqueline e in Jackie. Ancora una volta, per Larraín il Potere è qualcosa che trascende gli individui che lo incarnano: è un’entità che parla un “proprio linguaggio” e che trasfigura la realtà in un insieme di simboli e codici. 

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Se tutto è pubblico, allora, dov’è il privato? Larraín sancisce (ancora) l’impossibilità del biopic “in senso stretto”, non schierandosi in modo drastico come Tarantino che, in un’intervista lo definiva un “cinema corrotto e solo una grande scusa per gli attori per vincere un Oscar”, ma scegliendo di trattarlo come un “genere nuovo”. “Spencer” è la storia di Diana, ma anche di altre donne. È il racconto di una donna intrappolata in una situazione che la annienta e la disorienta; è il ritratto – rivisitato – di un’“icona” che può essere rappresentato in tanti modi e non per forza soltanto in quello “esatto”. 

“Spencer” è una sorta di anti-biopic. Non eccede nei dettagli di cronaca restituendo un personaggio quasi completamente solo; Larraín prende una “porzione” della vita di Lady D. per scomporla e ricomporla all’infinito. Non è facile empatizzare con un personaggio che vive tanto profondamente la propria individualità e che è così prigioniera di un contesto ormai invivibile. “Spencer” è un film di “fantasmi”; un’opera per certi versi anche surreale, in cui – come Diana – lo spettatore cerca di svincolarsi dalle ombre per osservare con lucidità.