“IL SIGNORE DELLE FORMICHE”: COMBATTERE CON I “MOSTRI”, SESSANT’ANNI FA COME OGGI

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di Mariantonietta Losanno

L’articolo 603 del codice penale del 1930, titolato “plagio”, puniva genericamente “chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, […] con la reclusione da cinque a quindici anni”. La disciplina del codice fascista aveva sostanzialmente modificato il significato che in precedenza questo termine aveva assunto nell’ordinamento penale; nel codice Zanardelli (1888), infatti, il reato di plagio veniva integrato solo da chi riduceva “una persona in schiavitù o in altra condizione analoga”. Nel momento in cui la norma cambia, viene privata anche del suo carattere oggettivo, e diventa uno “strumento” dell’arbitrio dell’interprete. 

“Il Braibanti non solo esercitava un dominio sulla sfera psichica, non solo gli aveva annientato ogni potere di libera determinazione, ma lo sfruttava anche fisicamente perché, essendo omosessuale, gli imponeva di subire gli sfoghi dei suoi istinti contro natura”, recita la Sentenza della Corte d’assise di Roma del 14 luglio 1968.

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Gianni Amelio sintetizza l’orrore senza fare sconti. Racconta i fatti senza presentare Braibanti né come un martire né come un mostro. E investe anche tanto di sé perché, spesso, il nostro paese tende all’amnesia politica e sociale. È importante soffermarsi su questa storia (che nasce, prima che dall’amore, da un scambio intellettuale tra un maestro e il suo allievo) che risale solo a sessant’anni fa. Stiamo parlando di una totale mancanza di “umanità” e ci stiamo riferendo solo a sessant’anni fa. L’omosessualità era considerata una “devianza” (termine molto pericoloso e purtroppo utilizzato impropriamente nel dibattito politico ancora oggi); si trattava, cioè, di un comportamento qualificato come non conforme con le credenze e i valori condivisi, una violazione delle aspettative di ruolo, un’azione che provocava reazioni – sia istituzionali che sociali – negative. Qualcosa che, quindi, ancora oggi viene costruito dalla società o dalla cultura a cui ci si riferisce. Questo ci spinge ad un’altra necessaria riflessione: dal momento in cui, il concetto di “devianza” non esiste in natura perché creato dal gruppo sociale a cui ci si riferisce in base alle interpretazioni comuni e al modo dominante di agire, che cosa accadrebbe, oggi, se non venisse orientato verso il superamento di queste azioni “mostruose”? Se i “mostri” a cui faceva riferimento Aldo Braibanti fossero ancora in vita e avessero soltanto cambiato aspetto, che cosa accadrebbe oggi? 

Contro Braibanti si schiera la madre di Ettore (nella realtà Giovanni Sanfratello, perché “la storia è liberamente ispirata a fatti avvenuti nell’Italia degli anni Sessanta”): una donna che ha voluto “curare” il figlio cercando di contenere gli impulsi, sottoponendolo a continui elettroshock per farlo ritornare ad essere “normale”. Tutto questo sempre sessant’anni fa. L’unico sguardo lucido è quello del cronista dell’Unità (Elio Germano): l’unico che riesce ad influenzare l’andamento del processo, a raccogliere consensi senza chiederli, a conquistare l’amicizia di Braibanti.

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“Il signore delle formiche” (il titolo fa riferimento alla passione di Braibanti per le formiche, che collezionava, teneva dentro teche di vetro e di cui studiava i comportamenti) è una pellicola necessaria, che impone allo spettatore di soffermarsi su quel senso di oppressione e di ipocrisia che scaturiscono dall’obbligo di essere “normali”. Ed impone di farlo perché oggi si parla ancora di devianze e di comportamenti non conformi. E se questo faceva paura sessant’anni fa, oggi cosa suscita?