“DOV’È LA CASA DEL MIO AMICO”: LA DISCIPLINA NON OBBEDIENTE DI KIAROSTAMI

0

di Mariantonietta Losanno

“Tutti devono sottomettersi alla disciplina”, tranne Kiarostami. La prima scena del film condensa tutti i significati che il regista attribuisce ai concetti di educazione, obbedienza, dovere. E di “premio”, inteso come un’attribuzione di un merito che conferisce identità. 

La sinossi è semplice, come è apparentemente “semplice” tutto il cinema di Kiarostami: illuminante, intimo, efficace. Un bambino che vive in un villaggio iraniano cerca di raggiungere un compagno che abita in un altro paesino: deve consegnargli il quaderno che per errore è rimasto nella sua cartella. Se non lo farà, il suo amico non potrà fare i compiti e verrà punito da un professore rigido e inflessibile. Ottantatré minuti che raccontano la restituzione di un quaderno: attraverso un’azione così comune – ma mai banale – ci si focalizza sulla generosità pura, sull’empatia che fa muovere il desiderio di compiere un’azione positiva, sull’idea di amicizia che non ha bisogno di “prove” o “controprove” (Ahmed e Nematzadeh sono compagni di scuola e di banco, ma non conoscono nemmeno gli indirizzi l’uno dell’altro), ma che è vera e disinteressata, sulla disciplina che non deve essere mai abnegazione. 

%name “DOV’È LA CASA DEL MIO AMICO”: LA DISCIPLINA NON OBBEDIENTE DI KIAROSTAMI

“Il primo dovere e dedicarsi allo studio. Soltanto dopo esservi dedicati allo studio potrete aiutare vostro padre nei campi e vostra madre in casa”, dice il professore ai suoi alunni. È questa l’educazione che permette di sviluppare rispetto? Ed è corretto pensare che educare significhi premiare quando il compito è stato portato a termine e punire quando le regole sono state “violate”? Senza deroghe, senza eccezioni. È questa l’educazione che fa mettere in moto l’empatia e fa compiere gesti di altruismo? Kiarostami attrae con il fascino della semplicità, attraverso un’opera simbolica che è aperta a varie interpretazioni – a seconda della sensibilità dello spettatore – e che si presenta come una “favola” o un racconto morale. Si riflette sulla responsabilità, sul senso di colpa; si cerca – seguendo il protagonista – un significato personale da attribuire alle “cose” che vada oltre ogni forma di imposizione sociale. 

Kiarostami “viola” le regole decidendo di non aderire ad un genere, ma lasciandosi spazio e tempo – sia reali che immaginari – per comporre e scomporre: non ci sono né obbedienza né alcuna necessità di essere lodato che possano frenarlo.