“NINJABABY”: PERSONALITÀ RIDEFINITE E PERCORSI DI (DE)STIGMATIZZAZIONE

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di Mariantonietta Losanno 

Rakel vive a Oslo con la sua amica Ingrid, ha poco più di vent’anni, una passione per il disegno ma un’indole rinunciataria. Quando scopre di essere incinta pensa immediatamente di abortire; dopo aver “individuato” il padre, si fa accompagnare da lui in una clinica, ma scopre di essere al sesto mese e nessuno, quindi, può autorizzare l’aborto. 

La protagonista della pellicola diretta da Yngvild Sve Flikke prima di rifiutare categoricamente la maternità, rifiuta se stessa. Si “difende” mostrandosi indifferente, libera e disinteressata; usa un linguaggio “colorito”, per mostrare spavalderia e naturalezza nel parlare di rapporti sessuali e anche nell’affrontare una situazione così delicata come l’aborto. Si sente inadeguata, ma non è “la persona peggiore del mondo”; Rakel ha (ancora) uno sguardo confuso e una personalità non definita: passa da un rapporto all’altro senza soffermarsi a riflettere su cosa la entusiasmi davvero o cosa la aiuti a crescere. La sua famiglia è assente (a parte la sorellastra, a cui pensa anche di dare il bambino), e il suo lavoro potrebbe concretizzarsi se smettesse di avere paura. Non ci sono punti di riferimento, né personali né familiari; è proprio il confronto (immaginario) con il bambino (sotto forma di animazione) che la obbliga a mettersi in discussione. Anche se non reale, quei discorsi costruiti dalla sua immaginazione sono sinceri: Rakel cerca di fare la cosa giusta, chiedendo l’opinione del bambino, provando a capire quale possa essere la decisione migliore per farlo crescere diversamente da come è cresciuta lei. Vorrebbe che gli venisse insegnato il valore dei soldi, vorrebbe che non si sentisse solo e che non venisse adottato da una famiglia ricca che – secondo la sua opinione – non si occuperebbe realmente di lui, ma lo riempirebbe solo di cose materiali. Confrontandosi con l’immagine di suo figlio inizia – forse per la prima volta – a confrontarsi con se stessa, a scoprirsi e a parlarsi senza mostrarsi necessariamente sopra le righe. 

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“Ninjababy” non è (solo) un film che vuole affrontare il tema dell’aborto cercando di compiere un processo di de-stigmatizzazione; non si rifà, quindi, soltanto ad opere come “L’Événement”, o “The Lost Daughter”, ma ricorda l’atmosfera di Joachim Trier ne “La persona peggiore del mondo”, un racconto che “educa ai sentimenti”, ma che, soprattutto, non vuole in alcun modo proporre giudizi morali. Flikke si allontana da intenti inquisitori: il fatto che Rakel non desideri essere madre non è il punto essenziale della vicenda. Piuttosto si concentra su quella condizione di “dispersione dell’identità” comune a tanti, e la affronta nascondendosi perfettamente nelle forme della classica commedia giovanile. 

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Rakel rifiuta gli affetti pensano di non essere “degna”, si sente più a suo agio quando si trova nel suo mondo di fantasia, in cui non ha paura del giudizio e sente di potersi sfogare. L’aborto diventa, allora, quasi un evento neutro, che fa parte della vicenda ma che non diventa l’elemento di “discussione” (perché, appunto, la regista lavora sulla de-stigmatizzazione cercando di renderlo semplicemente quello che dovrebbe essere, un diritto su cui non c’è da dibattere); “Ninjababy” è, piuttosto, un racconto di formazione ironico e coraggioso, irriverente e sensibile, proprio come Rakel.