“TROMPERIE – INGANNO”: LA FEDELTÀ ASSOLUTA AL CINEMA E ALLA SCRITTURA VS L’INFEDELTÀ E L’EGOISMO DEI PERSONAGGI

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di Mariantonietta Losanno

Si potrebbe disquisire per ore e ore sull’amore, su quello che caratterizza un “buon” matrimonio, sul sesso, sulla morte, sulle malattie. È necessario che qualcuno ascolti le digressioni, che partecipi; è possibile addirittura che “capti” un potenziale per un possibile libro che le racchiuda, che sia presente, quindi, adottando un’indole “investigativa”. A Philip piace prendere parte alle divagazioni delle sue “intervistate”: si tratta di donne diverse – alcune forse persino immaginate – che gli espongono problemi e dinamiche differenti. Lui, scrittore americano a Londra, concepisce quelle confessioni come possibili spunti da sviluppare e rielaborare, per produrre materiale narrativo. Non c’è nulla che leghi queste conversazioni che si focalizzano su temi differenti e che avvengono tra persone e in contesti diversi: quello che ricorre è l’atteggiamento di Philip, “ossessionato” dalle parole e interessato (forse) anche a trovare una possibile risposta ai suoi interrogativi che sviscera – di volta in volta – legandosi alle storie delle sue interlocutrici. 

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La pellicola di Desplechin assume facilmente i connotati di una sorta di “duello”, rifacendosi al materiale di riferimento, quello di Philip Roth, autore di “Inganno”, che ha definito la sua scrittura una “lotta”. “Un’ossessione, un destino, una condanna, una necessità, un diritto, spesso condiviso con altri amici scrittori, spesso legato al fatto di essere ebreo.”, ha raccontato. Un modo di scrivere che nasce, quindi, dal bisogno di domandarsi “perché farlo”. Desplechin ha mostrato una stessa dose di ossessione nel decriptare il romanzo, così da rendere l’adattamento più “fedele” possibile all’originale. Ed è paradossale come nella pellicola il concetto di “fedeltà” – declinato in modi diversi – sia così preponderante. In un certo senso, il regista, elogia l’“infedeltà”, analizzando le “modalità” di tradimento, soffermandosi su quanto, spesso, ci si senta “obbligati” a “conservare l’illusione di essere una persona onesta”, qualsiasi cosa possa voler significare onesta. Ed è ancora più paradossale che questi discorsi vengano affrontati proprio con la sua amante, interlocutrice più frequente; forse “una” delle sue amanti, ma sicuramente quella a cui è più legato, di cui sembra preoccuparsi di più. Una preoccupazione che riguarda, ancora, le parole e il bisogno di ascoltarle per poi ri-analizzarle. È come se Roth e Desplechin convergessero: i loro sguardi e le loro ossessioni combaciano, in una linea di perfetta continuità.  

La materia che emerge dalle varie conversazioni sembra voglia, in qualche modo, anche fornire delle spiegazioni. Delle “verità”. Perché ognuna di queste donne racconta dei segreti: l’intento è proprio farle confessare, attingendo dai loro ricordi o dai loro sogni. Questo modo di osservare e di indagare le loro vite può sconfinare su un dibattito tanto complesso quanto delicato, in cui si percorre quella linea di confine che separa la misoginia dal femminismo. Entrambi i concetti, forse, dovrebbero essere messi da parte.

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La forza del film – e chiaramente del romanzo – è proprio la “nevrosi”, quel modo di concepire la scrittura, di esaltarla e alterarla, di darle uno spazio e un valore infiniti. Tutto si risolve mentre resta completamente incompiuto. Desplechin omaggia Philip Roth e il suo romanzo (forse uno dei meno conosciuti, un racconto breve se non addirittura, come lo stesso scrittore riferì, “una semplice traccia per successive rappresentazioni teatrali”) creando e ricreando storie reali o immaginarie in un’atmosfera intima che incoraggia l’emersione dei segreti più inconfessabili. È la parola la protagonista assoluta, sia del romanzo che del film. “Tromperie” è un unico dialogo che coinvolge, inevitabilmente, anche il cinema (è la stessa Seydoux, amante di Philip, a riflettere sulla sua carriera cinematografica parlando di quando “aveva i capelli blu ed era criticata perché “esibiva” il suo seno”, richiamando “La vita di Adele”) e la letteratura. Le scene di impostazione teatrale, poi, ci riportano anche a Roman Polański e al suo “Venere in pelliccia”. Un dialogo che diventa universale e che ha la prerogativa di lasciare percorsi aperti, in sospeso. La parola diventa lo strumento per indagare la morale, i sentimenti, le (forme di) verità, l’erotismo.