“EMPIRE OF LIGHT”: SAM MENDES ALLA RICERCA DEL CINEMA PERDUTO 

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di Mariantonietta Losanno 

È un cinema – e al tempo stesso il Cinema – ad aprire il racconto nostalgico di Sam Mendes. Siamo nel 1981, a Margate, nel sud-est dell’Inghilterra, in una grande sale cinematografica (l’Empire), in cui Hilary Small (Olivia Colman) lavora come responsabile di sala. È l’arrivo del neoassunto afroamericano Stephen (Michael Ward) – pieno di entusiasmo – a riuscire ad aiutarla a svincolarsi da quella “trappola” in cui è rinchiusa e a slegarsi dal ruolo di donna fragile e sfruttata: i due trovano – insieme – una dimensione all’interno della quale possono muoversi liberamente e dove possono condividere idee e passioni. Ed è attraverso questo legame che lei inizia a reagire, rifiutando situazioni – e relazioni – scomode con uomini sposati (è l’“infido” Colin Firth a chiederle continuamente di soddisfare i suoi bisogni).

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Sam Mendes va alla ricerca del (suo) tempo perduto: “Empire of Light” è una rievocazione del passato e, al tempo stesso, un omaggio al Cinema. Una celebrazione, cioè, di un’esperienza – per certi versi – perduta e di un’architettura, di cui si apprezza la bellezza dei proiettori e dei fasci di luce. Il contesto, invece, è quello dell’Inghilterra dei grandi poeti (Tennyson, Auden, Larkin), di Margaret Thatcher, del punk e del razzismo. Il regista recupera i suoi ricordi rievocando il fascino della pellicola e suggerendo l’idea che il Cinema abbia (o debba avere) ancora una funzione sociale, oltre ad una capacità (o meglio un potere) di emozionare e commuovere. Tante sono, infatti, le citazioni ad opere cinematografiche che il regista dissemina nel suo film attraverso i dialoghi e le immagini. Ma non sono solo i rimandi ad altre opere a rendere tangibile la nostalgia. Ci sono gli sguardi delle persone in fila per accedere alla sala, l’entusiasmo nel dire “non vedo l’ora di vederlo”, pensando a quanto sarà forte l’emozione di trovarsi di fronte allo schermo. Sam Mendes trascina questa sensazione malinconica per tutta la durata del film, finendo – forse – per enfatizzare troppo i toni (nonostante lo spettacolo resti comunque godibile ed affascinante) autocompiacendosi. 

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C’è un altro aspetto essenziale, che esula (ma neanche troppo) dal rimpianto legato al Cinema. È la questione – troppo attuale – della salute mentale, che Hilary tenta di nascondere, fingendo quando si trova insieme ai colleghi e vivendo un’apatia che si risolve solo con i farmaci. Si torna, allora, sempre allo stesso punto, evitando di banalizzare – naturalmente – la dinamica: ci sono legami che possono salvare la vita. Senza fare miracoli. Si tratta di ricevere uno sguardo di complicità mai giudicante, che aiuta a lasciarsi andare, a non avere paura di ammettere di essere stati sconfitti. Perché, in fondo, lo siamo stati tutti. 

Peccato solo che “Empire of Light” si adagi un po’ troppo sulle sue belle intuizioni.