IL TOTANO RICCHIONE – sesta puntata

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–    di Elvio Accardo    – peschereccio IL TOTANO RICCHIONE – sesta puntata

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L’ARDITO

Arrivò al bar del porto. Ernesto era lì suonava la sua fisarmonica solo con qualche accordo, appoggiato alla breve ringhiera dei quattro gradini che accedevano al bar.

“Buonasera Ernesto, sono Amedeo Serra, come state?” Salute a voi, professò, ero distratto, stavo provando un po’ la fisarmonica, c’è un tasto che sfiata, lo devo aggiustare”; “vogliamo sederci al tavolo?”, disse Amedeo “come volete. Il pulmino della confraternita, mi ha accompagnato fino a qua da una mezz’ora. Sapete, io organizzo il pranzo dei poverelli, e in verità ieri sera me n’ero proprio dimenticato. Scusatemi se vi ho fatto girare a vuoto, ma ho potuto avvisare solo Padre Saverio, mi sono venuti a prendere presto, scusate”. “Non vi preoccupate, Ernesto, sediamoci qua, date a me la fisarmonica, la metto su questa sedia”. “Professò, più tardi partirete per la solita pesca a totani… questa, è una serata fortunata, mi ha detto poco fa Jennarone perché ieri notte, tra punta Cala Bacoli e Cala di Mitigliano, hanno preso totani a non finire, ma stanno più a fondo però. Hanno pescato a settanta braccia, quelli i totani quando stanno profondi, vuol dire che stanno in amore, chissà se poi è vero”.

“Io non ve lo so dire”, disse Amedeo chiamando il cameriere, “cosa prendete?” “Niente, per oggi basta ho mangiato e bevuto a sufficienza”. “Portatemi una granita di limone” disse Amedeo, il cameriere si allontanò.

“Ernesto, scusate se affronto subito l’argomento del nostro appuntamento, ma vorrei capire di più le cose che mi avete appena accennato ieri sera a villa Spada.  Mi hanno incuriosito molto, e rimango perplesso pensando che ho avuto un amico in comune con voi e che poi è legato al” S. Filippo”, il mio gozzo che voi dite di aver conosciuto molto bene. Vi prego di chiarirmi questi misteri che per tutta la giornata mi hanno lasciato con un punto interrogativo nella testa”. “Professore Serra, io ve lo avrei detto subito, ma Don Gaetano ci ha interrotto, e poi il resto della serata ho suonato e cantato, ma adesso vi posso dire tutto quello che tengo dentro all’anima e che voi avete diritto di sapere. Io tengo il dovere di raccontarvi. Il nostro amico comune era Tobia. La buonanima, ve lo ricordate Tobia, il guardiano del” S. Filippo”, il vostro gozzo?”. Il cameriere portò la granita di limone, Amedeo pagò e rispose un po’ deluso ad Ernesto: “Tobia, sì, sì me lo ricordo bene, mi dispiace che è morto. Era una brava persona, forse un po’ svanito, viveva sempre in un mondo tutto suo, nel quale non permetteva a nessuno di entrare; aveva però una grande dote, era innamorato del mare; per uno come lui, così chiuso, voleva dire un grande conforto … ma scusate, Ernesto, ma non capisco perché è importante che io sappia tutto di Tobia?” “È importante, professò, perché Tobia è morto affogato, si è suicidato con la vostra barca, voglio dire che ha deciso di uccidersi insieme al” S. Filippo”. Gli occhi di Ernesto roteavano bianchi nelle ombre cupe della sera, la sua voce era fredda, lenta e roca. Amedeo sentì il peso di quelle parole e rimase muto e accigliato, mentre la granita di limone perdeva la sua consistenza gelida e diveniva acquetta zuccherata. “Vi prego, andate avanti” – disse Amedeo fissando il viso di Ernesto che esprimeva forse dolore, o forse rabbia; ma i suoi occhi spenti guardavano altro, o roteavano in maniera discordante con le espressioni del volto, e quindi quel volto di vecchio, un po’ rubizzo; gli appariva surreale, come un quadro che mostra di se’ segni e colori caotici, e che solo a tratti si ricompone in un’emozione che, dopo un attimo, sfugge ancora. “Professò, la storia che sto per raccontarvi a volte è incredibile, e non vi nascondo che pure per me è difficile accettarla fino in fondo, ma dovete sapere che Tobia è vissuto con me al convento parecchi anni, accolto dalla carità di Padre Leonardo, come pure io, voi lo sapete… ma quello che ha sofferto lui, pochi lo sanno, forse solo io. Io credo che solo con me è riuscito a dire cose che a nessuno altro ha mai detto, ed è per questo che io ve lo debbo raccontare, perché voi senza saperlo, avete permesso a Tobia di essere felice. Ripeto, felice negli ultimi anni della sua vita”.

La voce di Ernesto arrivava ora dolce e commossa, gli occhi fissavano il cielo già nero, quasi blu, senza luna, la gente si avvicinava al porticciolo e si accalcava sulla riva della spiaggetta, dove tantissime barche apparecchiate con fiori, nastri, bandiere, e illuminate in infinite maniere, aspettavano l’arrivo della processione. “Ernesto questo per me è sorprendente; io veramente non so, come dite voi, di aver reso felice Tobia negli ultimi anni della sua vita, ma se l’ho fatto ne sono contento, adesso continuate, vi prego, questa storia la voglio conoscere fino in fondo”.

“Io e Tobia ci siamo conosciuti da ragazzi, io e lui siamo nati qui a Massa, e quando è scoppiata la guerra, siamo andati in Marina, tutti e due marinai, io ero inserviente ai cannoni, Tobia addetto alle stive. Ci siamo imbarcati nel ’41 a bordo del “Caterina Costa”, una grande nave da carico adibita poi al trasporto di truppe e di materiali da guerra. La domenica pomeriggio del 28 Marzo 1943, la nostra nave, “Il Caterina Costa”, era ancorata nel porto di Napoli con un carico di bombe, proiettili, benzina, cannoni, carri armati, destinato alle truppe in Tunisia che combattevano gli anglo-americani. Verso le tre si verifica un incendio a bordo, in breve diventa un rogo enorme e poi un’immensa esplosione squarciò la nave quando le fiamme arrivarono ai fusti di benzina … professò, una cosa tremenda, ci furono 600 morti e 3.000 feriti! Figuratevi che furono trovati feriti fino alla stazione della circumvesuviana di via Gianturco.

Le case tremarono per tutta Napoli come se fosse un terremoto e dal cielo cadde fuliggine per giorni. Io e Tobia fummo feriti gravemente alla testa, io agli occhi e l’ultima cosa che ho visto, sapete che cosa è? La mia faccia, eh, si, proprio la mia faccia di guaglione, coi baffetti e il pizzetto come si usava allora. Stavo correndo insieme ai pompieri che erano saliti a bordo per spegnere l’incendio e mi trovai di fronte al grosso vetro della lampada per i segnali luminosi notturni, con i riflessi dell’incendio era diventato un grande specchio, in cui io vidi per l’ultima volta che esistevo. Proprio così, professò, da allora, non ho visto più la mia faccia, e non ho capito più se ero vero oppure non esistevo, perché se lo vedete cambiare il vostro viso, riuscite a capire che il tempo passa … io, per me, tengo ancora i capelli neri, i baffetti e il pizzetto. Mi ripresi due mesi dopo, mentre Tobia, colpito alla testa, fu salvato per miracolo, dopo un mese di coma. Professò, da allora, Tobia è uscito pazzo, ma credo non tanto per la ferita, ma per lo shock del grande trauma dell’esplosione.

Ebbe poi continuamente crisi di panico e di follia. Io fui esonerato dal servizio militare, non servivo più a niente, ma Tobia lo credettero ancora utile, e fu destinato ai servizi a terra. Proprio per la sua esperienza di pescatore, perché Tobia era da ragazzo un ottimo pescatore, fu assegnato all’acquario nazionale di Napoli come inserviente, dove si occupava delle vasche e del cibo dei pesci.

Gli diedero una barca e con questa girava tutto il golfo con reti e ami per prendere pesce, granchi, cozze e anche per sfamare quello che era rimasto nelle vasche dopo l’occupazione. Il gozzo che gli diedero in consegna era un gozzo speciale, era nientemeno che un gozzo sorrentino costruito nei cantieri di Marina Grande a Sorrento, gemello del “Duca degli Abruzzi”, il famoso gozzo che vinse la regata del Tevere del ’39 ed il palio del Golfo nel ’52.  Questo gozzo così bello, disegnato dal figlio del poeta Saverio Mollo, poeta napoletano, Luigi, era lungo 7-8 metri, per quel poco che era rimasto delle imbarcazioni requisite. “L’Ardito”, così si chiamava veramente il gozzo, fu dato all’acquario nazionale di Napoli. Professò, quel gozzo aveva una campanella di bronzo sull’asta di prua e la Madonna intagliata più sotto, proprio nel legno della prora, dove la teneva il vostro S. Filippo”. Ernesto tacque, smarrito insieme agli occhi in un cielo senza fondo, dove Amedeo smarriva spesso, in quella singolare giornata, il senso del reale. Il” S. Filippo” era “L’Ardito”, gemello del “Duca degli Abruzzi” non avrebbe mai immaginato questa possibilità. Quando lui lo comprò, era una carcassa sfondata, che solo a tratti conservava la sua elegante linea.

“Professò, stanno arrivando, la processione sta arrivando sulla spiaggetta”. Amedeo, assorto com’era, non aveva udito la musica della banda che accompagnava sulle ripide scale la processione. Amedeo si voltò e la sacra immagine della Madonna comparve sugli ultimi scalini sostenuta da robusti giovani, con tutto il seguito che cantava e pregava rispondendo all’antifona di qualche monaco, forse Padre Saverio. Amedeo disse: “Ernesto, aspettatemi qui, torno subito” – “una preghiera alla Madonna eh? Andate, andate vi aspetto qua”. Amedeo scese i pochi gradini e si avviò cercando varchi tra la gente che si accalcava intorno all’immagine sacra. Improvvisamente, una lunga serie di scoppi rapidi e secchi frustò l’aria calda della sera riempiendola di pungente odore di cordite. Le orecchie di Amedeo soffrirono, ma non si fermò, l’annuncio dell’arrivo della processione l’aveva scosso dalla sorprendente rivelazione di Ernesto e ora si dirigeva alla ricerca di Rosanna. La vide quasi subito, e ne rimase fulminato. Rosanna indossava una veste d’argento che sfumava nel blu, i suoi capelli di ossidiana erano sciolti, seguiva Padre Leonardo e altri officianti con abiti splendenti, paramenti straordinari che brillavano nella penombra, illuminati da fari e candele che disegnavano ombre nere quando venivano coperte dalla folla. Amedeo cercò invano di farsi notare da Rosanna, che in quelle vesti, e nella suggestione dei canti e delle luci aveva anch’essa una sacralità. Proprio come gli suggeriva il suo inconscio, Rosanna sembrava parte di quell’antico rito, e austera e inavvicinabile come una divinità costiera a cui fare doni e offerte. La Madonna con i monaci si imbarcarono, e così la banda, che si divise in due paranze traballando con i tamburi e i tromboni per il mare a quell’ora già un po’ lungo.

Così tutta la gente che poté imbarcarsi su una barca, partì. Una vera moltitudine di barche, paranze, gozzi, motoscafi, si allontanò dal porticciolo e i ceri accesi che brillavano sulle acque nere divennero mobilissimi, perché ognuno cercava un equilibrio su quelle imbarcazioni che a riva subivano forte il beccheggio e il rapido rollio prodotto dalle onde. Qualcuno lasciò le scarpe sulla sabbia, qualcun altro si bagnò fino al ventre, ma tutti partirono dietro quella paranza del poeta – pescatore, Aniello Piombino, che aveva avuto la fortuna di essere sorteggiato qualche ora prima nel chiostro del convento. Solo qualche nota stonata dei tromboni sottolineavano gli ultimi adattamenti al moto irregolare delle barche, che, tra canti e suoni, si allontanò in direzione di Punta Lagno.

Ad Amedeo non restò che tornare da Ernesto, più confuso di prima, ma proprio mentre decideva di tornare, un’altra lunga serie di scoppi improvvisi lo scosse, spaventandolo; ma gli fece bene. Nel salire gli scalini del bar scorse Ernesto che parlava con un vecchio seduto a fianco a lui: “Professore Serra, vi presento Jennarone, vi ho sentito arrivare perché il suono del vostro bastone è inconfondibile.” “Buonasera Jennarone” – disse Amedeo tendendo la mano ad un vecchio col cappuccio di lana blu, secco, con le guance incavate e gli occhi piccoli e lacrimosi. “Buonasera don Amedè, io dico che possiamo partire, il mare è buono, la gente se n’è andata, e il cielo è scuro. Se volete prendere i totani andiamo un poco più avanti di Mitigliano, ci sta un poco di mare lungo e la barca è un po’ pesante, se ci avviamo è meglio, ci portiamo pure Ernesto, così ci fa sentire una canzone, mentre arriviamo là, voi che ne dite?” – “Be se Ernesto ci accompagna allora vuol dire che i totani non hanno scampo”. “Onore e piacere … e se vi accompagno con la fisarmonica poi sicuro fate una strage, andiamo” – “Feliciello mi ha anche detto che poi teniamo l’appuntamento con lui e don Gaetano a punta S. Lorenzo, loro mettono due luci a poppa”.

La mellonara partì. I canti e la musica riempivano la notte, e sul mare scuro le piccole fiamme delle candele si moltiplicavano infinite volte tra i riflessi delle onde popolando di stelle un manto nero ondulato e misterioso, facendolo apparire in cielo. “Professò, la processione sta lontana?” – “Sta arrivando a Puolo, dove già hanno acceso tanti fuochi nell’attesa della Madonna.  È molto suggestivo vedere la costa piena di falò, oh! Scusate, Ernesto, voi non potete vederli”. “Professò, io li ho già visti quando ero giovane e li ricordo benissimo, spesso per fare quei falò da Puolo a Marciano, incendiano i mucchi di mondezza, raccolgono tutta la spazzatura e poi la incendiamo con la benzina, fanno l’utile e il dilettevole. Quando non si vedono più le luci della processione vuol dire che sono andati al Vervece, e gli stanno girando intorno”. Amedeo era in piedi sulla poppa della mellonara, che con un basso regime e un rumore profondo del vecchio motore diesel, s’allontanava verso Sud.

LA SIRENA

All’uscita del porticciolo, la vecchia barca girò intorno ad una piattaforma galleggiante, dove alcuni uomini fissavano corti tubi alla struttura: “Professò, ci sta la piattaforma qua in mezzo vero? Quelli sono i fuochisti, si preparano per il rientro della Madonna, quest’anno ci stanno i grandi”. Amedeo raggiunse Ernesto già seduto sulla panca, mentre Jennarone dal suo gabbiotto del timone, ad alta voce, per coprire il rumore del motore, diceva:” ci sta Aniello del Piano, detto Bucalone, poi quello di Mugnano, o Cinese, e a finale Trematerra, il più forte di tutti i fuochisti d’Italia … fa l’apertura barese e conclude con l’intreccio, il colpo scuro e la controbomba. Don Amedè, stasera c’è il massimo, figuratevi che il colpo scuro è un calibro tredici, quello, quando esplode, lo sentite rimbombare dentro allo stomaco.” Amedeo sorrise a Jennarone senza mostrare grande interesse, posò il suo bastone sotto la panca mentre la barca prendeva il largo in direzione di Mitigliano.

A bordo le luci di posizione bastavano a diffondere una luminescenza azzurrina su tutta l’imbarcazione, e il bianco della coperta spiccava come un ritaglio di carta. “Ernesto, non vi nascondo che quello che mi avete detto a proposito del “S. Filippo” mi giunge completamente nuovo, e il mio interesse per la vostra storia aumenta sempre più; capisco che il povero Tobia abbia dovuto soffrire per la sua menomazione, ma vi prego di continuare. Qui ne abbiamo di tempo, io non lo so se lo sapete, ma il “S. Filippo”, quando me ne andai a Roma una decina di anni fa, lo consegnai a Tobia come una specie di regalo, io non ne volevo più sapere di Massa per motivi personali”.

La voce bonaria di Ernesto interruppe Amedeo: “lo so, lo so, la signora Rosanna si mise con Don Gaetano, ma che ci volete fare, delle volte in amore perde chi vince e altre volte vince chi perde, scusate se ve lo dico, ma la signora Rosanna, sposando Don Gaetano non ha fatto un buon affare e voi, oggi invece, tornate e forse niente è cambiato tra di voi … mi sono spiegato, professò? Perdonate l’intrusione, ma sapete com’è, zia Tatella ed io non ci nascondiamo niente tranne …” “il fatto di Tobia?” -concluse Amedeo. “Proprio così, solo io conosco questa storia, e adesso pure voi”; “e allora andate avanti, per il fatto di Rosanna, è vero, per me è tornato tutto come prima, anzi più forte di prima, anche se da quando sono arrivato stanno capitando cose assai particolari che mi lasciano un poco smarrito, ma vi prego, continuate a raccontarmi di Tobia”. Ernesto prima di continuare prese dalla tasca un fazzoletto, asciugò gli occhi e soffiò il naso, ripose con calma il fazzoletto e disse,” professò, delle volte anche io penso che una storia cosi, come quella che vi racconto di Tobia, è una storia difficile da comprendere. Quella vostra con la signora Rosanna, invece è come una favola antica, dove pare che vincono i contrasti d’amore, ma poi bello e buono cambiano le cose, tutto si capovolge, con sofferenza magari, con lotte o con scontri sanguigni, però dopo vince sempre l’amore, alla fine tutto si appiana, ogni cosa torna meglio di prima. In questa storia di Tobia, invece, pure se compare una specie di amore, diciamo incredibile, o meglio straordinario, ma sempre nella grazia di Dio, ci sta solo un finale con un destino assai cupo, lontano dalla pietà e dalla compassione degli uomini.” Amedeo si spinse al limita della panca, sedendo più vicino ad Ernesto, il rumore profondo del motore diesel della mellonara sembrò meno  invadente, mentre la sua ansia aumentava,  poi disse: “ continuate Ernesto, vi ascolto” “Tobia era un bravo uomo, si faceva volere bene da tutti, e all’acquario il direttore lo stimava per la sua abilità di pescatore; non dava importanza alla sua menomazione della testa, anche se qualche volta si fissava  su cose che solo lui vedeva, o passava giornate muto, senza parlare con nessuno . Nell’estate del ’43, come altre volte aveva fatto, partì col gozzo che poi è diventato il vostro “S. Filippo”, l’Ardito insomma, a pescare sotto Capri. Da Napoli ci vogliono un paio d’ore col motore, Tobia puntava prima su Massa, poi tagliava per le Bocche di Capri e puntava sui faraglioni. Così anche di notte e a luci spente, tutti i pescatori della costa sanno arrivare al promontorio di Massullo, per proseguire sotto i fianchi del Monte Tiberio dove stanno le caverne.

È lì il posto dove i pescatori più bravi prendono ciò che vogliono, lì il mare è pericoloso, appena si alza ti trovi su enormi scogli e solo gli esperti come Tobia, potevano arrivarci al buio col gozzo. Più giù poi, verso Levante, quasi di fronte a Positano, ci stanno le Sirenuse, oggi quelle due isolette si chiamano li Galli. È quello il posto delle sirene, è la che Ulisse le incontrò, voi lo sapete bene … professò, io vi racconto ogni cosa, e se voi avete pazienza, arrivo pure alla disgrazia. In tempo di guerra, tutto il golfo era continuamente bombardato da terra e dal mare, e c’erano mine dappertutto, ogni tanto qualche paranza, e pure qualche nave, ci sbatteva contro e saltava in aria in mezzo alla schiuma, tra colonne d’acqua che in un attimo ingoiavano e facevano scomparire ogni cosa.

I tedeschi, professò, avevano lasciato dei corridoi che solo loro sapevano. Queste mine a volte esplodevano perché qualche mareggiata le disancorava, e allora le onde o la corrente le sbatteva sugli scogli. In quei corridoi passavano centinaia di navi da guerra, anche sommergibili e navi italiane, piccole e grandi con cannoni, navi che portavano soldati in Africa, oppure carri armati e rifornimenti, navi passeggeri, unità antisommergibili, un’infinità di mezzi di ogni tipo che occupavano tutto il mare, sempre. Quella notte era fine agosto del ’43, Tobia uscì con l’”Ardito” dopo che c’era stata una mareggiata; a Napoli s’era saputo di una mina esplosa sugli scogli intorno a Capri, proprio una di quelle mine che le forti onde staccano dagli ormeggi, e allora Tobia, la notte successiva, col mare calmo, si avviò verso Capri per mettere reti. Lui conosceva bene i percorsi, e senza luci e col motore al minimo, con quella barca, arrivò a Capri molto prima dell’alba, giusto il tempo per mettere le reti nella zona delle caverne, sotto il Monte di Tiberio, dove si prendono i cosiddetti pesci con le ossa, voglio dire i pesci grossi, voi lo sapete.

Quando va a tirare su la rete, non trovò niente, fino alla fine. Questo era già strano, ma in fondo all’ultima porzione di rete, ecco che tira su un pesce molto grosso, però molto strano, che non aveva mai visto prima. Sembrava già morto, e quindi non lo sollevò dall’acqua, lo guardò da tutti i lati tenendolo nella rete a fianco alla murata del gozzo. S’accorse che non era proprio un pesce, ma una specie di giovinetta, si proprio così, anche se sembrava una ragazza giovane, fino ai fianchi, poi cominciava un vero pesce, con scaglie e pinne, e terminava con la coda, come può terminare una grossa cernia, e aveva pure lo stesso colore della cernia, un poco scuro, tra il marrone e il giallo. Poi la parte di sopra, professò, anche se non era tutta sviluppata, era proprio una femmina, con le mammelle già un poco accennate, i fianchi ben modellati, la pelle del busto era  argentata, con  riflessi verdi, lei era un poco acerba, se proprio vogliamo dire, ma perfetta, le spalle larghe piene, e il viso, professò … Tobia diceva che teneva il viso di una bambina, con gli occhi grandi e la bocca aggraziata come quella di una Madonna, in testa un ciuffo di peli neri che nell’acqua si muovevano sul viso, aveva le braccia un po’ piccole, con manine a forma di pinne. Don Amedeo, quella era una sirena che sicuramente era stata travolta dall’esplosione della mina, e così Tobia l’aveva presa nella sua rete.

Sembra una cosa incredibile, ma Tobia me la descrisse così bene che si commuoveva quando me lo raccontava, per la tenerezza e per la pena che quella creatura gli procurava”.

“Ernesto, il vostro racconto ha veramente dell’incredibile, le sirene sono personaggi mitologici, non possono esistere veramente; Tobia probabilmente avrà preso nella sua rete qualche pesce che con molta fantasia, può somigliare a quello che dite voi, forse un lamantino, o un dugongo, che sono dei sirenidi, ma non vivono in queste acque, più possibile una foca monaca, ma neanche questa è più presente qui. Scusate Ernesto, ma non avete mai dubitato di quello che raccontava Tobia? In fondo non era proprio sano di mente, quella malattia diciamo così, quella psicosi di cui soffriva portava delle allucinazioni, delle stravaganze che giustificano altre verità, non vi pare?” Le parole di Amedeo avevano un tono troppo alto, sembrarono un po’ fuori misura, stonate, anche se ovvie, ma gli avvenimenti di quella giornata gli avevano procurato un’ansia di cui non era ancora cosciente; il racconto di Ernesto alla sua mente arrivava scontato anche se pregno di emozioni forti e contrastanti. Ma la sua anima? Il suo inconscio? Come leggevano quelle parole?… Una fredda sensazione di insicurezza cominciò a riprendere quota nella sua mente, la stessa sensazione che aveva avuto alla vista di Rosanna austera come una divinità, che seguiva Padre Leonardo e il quadro della Vergine durante l’imbarco della processione poco prima.

Un alito di paura? Ernesto aveva percepito quella stonatura, ma non si fece domande, lui aveva già tante risposte. “Professò, voi volete la verità, ma quale verità, la verità di Tobia? La verità mia? la verità vostra? E se avessi raccontato questa storia alla gente di Massa, quante altre verità vorreste sentire? Cento, mille? Voi forse volete la verità vera, non è così? La verità inconfutabile, ma purtroppo non esiste, proprio così”.

Amedeo non voleva aprire un dibattito sull’argomento “verità”, cominciava a sentirsi disarmato, stanco di opporsi alle parole, ai concetti. Quella giornata surreale gli stava dando qualcosa, e cominciava ad allentare le sue difese, ed Ernesto adesso gli appariva diverso, non più un povero cieco che cantava e suonava elemosinando, ma un antico cantore che raccontava storie piene di poesia e di metafore, era lui, adesso che doveva ascoltare, capire se possibile.

“Ernesto, io credo sia importante credere in una verità, spesso ci aiuta”. “Professò, la verità, quella vera, è fatta di due parti. La prima è quella che spetta agli altri, la seconda è quella che spetta a ciascuno di noi. Tutte le cose della vita corrono come su due binari uguali, e vanno pure nella stessa direzione, ma possiamo dire che si somigliano, che hanno lo stesso scopo. Ma siamo sicuri che sono veramente uguali? Ci sta il binario che fa più ruggine dell’altro, quell’altro magari è più lucente di quello di prima, oppure è scheggiato e l’altro no, insomma, anche se vanno nella stessa direzione e sempre alla stessa distanza, se un po’ li guardate bene sono proprio diversi.

Se due persone camminano sui binari, uno su quello destro e l’altro su quello sinistro, mantenendo lo stesso allineamento, quello che cammina sul lato interno, dopo la prima curva si trova più avanti dell’altro. Caro professore, come vedete, ogni binario tiene la sua lunghezza, così la verità, ognuno la vede dal proprio binario, anche se poi sembra che vanno nella stessa direzione”.

“Ernesto, voi avete ragione, la vita è anche un sogno, quello che è reale e che a volte ci sembra doloroso, orribile, inaccettabile, è sempre affiancato dal sentimento della speranza e della pietà. Però penso che c’è una sola verità nella morte, c’è una sola rotaia, e da qualunque lato la guardate, non tiene paragoni, è una rotaia senza compagna”.

Ernesto, alzò gli occhi al cielo, sbarrandoli. Il bianco del globo s’illuminò in un riflesso argenteo. Il motore della mellonara risuonava cupo nelle viscere e l’onda tagliata e poi schiacciata dal pesante scafo, frustava la superficie dell’acqua rompendosi, in infinite gocce e spruzzi di mare che superavano la murata bagnando la pelle delle guance di Ernesto di lievi bave di sale. Ernesto si girò verso Amedeo assaporando il silenzio della sua cecità. Allungò il dorso della mano verso la guancia umida di mare e disse:”se la morte avesse un solo binario come dite voi, oppure fosse una sola verità senza possibilità di paragone, perché esiste la piccola morte? Perché ci è dato di morire un po’ alla volta?”

“Ernesto!”- il nome gridato ruppe quella strana atmosfera, era Jennarone che continuò ad alta voce uscendo dal gabbiotto del timone-”pigliatevi i cappucci di lana nel gavone di poppa, adesso il fresco si fa sentire e l’umidità, piano piano, entra nelle ossa. Più avanti, se le volete, ci stanno le cerate sempre nel gavone, quelle sono buone di notte, fermano l’umidità”. Si spostò a prua sistemando le cime che erano rimaste in coperta al momento della partenza. Ernesto, girando la testa bianca, indicò uno sportello situato tra le gambe di Amedeo e disse: “aprite là, dove sta la maniglia di ferro, girate e tirate.” Amedeo tastò nel buio perlaceo e individuò la maniglia, la girò, e lo sportello si aprì costringendolo a spostare le gambe. Una zaffata di nafta attraversò la barca, ma subito fu sostituita dall’odore di canapa del cordame lì riposto, “ci deve stare un sacco allacciato, vedete, là dentro ci stanno i cappucci, Jennarone ha ragione, il freddo della notte non si ferma sulla pelle, entra dentro le ossa e i dolori non se ne vanno più”. Ernesto disse queste parole mentre uno spruzzo d’acqua di mare lo colpiva in faccia facendogli aggiungere un’imprecazione a chiusura della frase. Amedeo trovò il sacco e ne tirò fuori i cappucci, uno lo diede ad Ernesto e poi chiese ad alta voce rivolto a Jennarone: “anche a voi dò il cappuccio? Qua ci sta”.” Professò”,- rispose Jennarone ritornando dalla sistemazione delle cime fermo sulla porticina della cabina – “grazie, grazie non ve ne siete accorto che io lo tengo da quando siamo partiti?”. Così dicendo, rientrò nella timoneria e subito si riaffacciò dicendo: “tra poco cominciamo a preparare le lenze e la lampara, i totani tengono le orecchie lunghe. Parlate piano piano”. Jennarone aveva detto tutto questo disegnando nella cornice della porta del gabbiotto appena illuminata, le lenze, la lampara e le “orecchie dei totani”. Amedeo infilò il cappuccio di lana sforzandosi di non pensare alla quantità di persone che lo aveva indossato prima di lui, poi guardò lontano, alla magia delle onde infrante e alla schiuma di madreperla che si chiudeva sotto un velo d’acqua verde opale, perdendosi in una scia sempre uguale e sempre diversa. Prese coscienza del rumore profondo del vecchio diesel, stupendosi di averlo dimenticato fino ad un attimo prima.

La notte sul mare esclude i preliminari, ogni cosa deve essere quella giusta, non c’è spazio per tutto ciò che a terra sembra utile e indispensabile. Questo vale anche per i movimenti del corpo, così pure per il percorso dei pensieri; la mente e il corpo arrivano facilmente all’essenziale, le formalità, gli atteggiamenti vuoti, di notte su una barca che naviga, scompaiono, si dissolvono senza lasciare traccia. Amedeo quindi non pensò ad altro, chiedendo ad Ernesto: “cosa intendete quando parlate della piccola morte?”  E così Ernesto rispose senza preliminari, come se il discorso iniziato prima non fosse mai stato interrotto da Jennarone. “La piccola morte è quella che tocca ai vivi. Io credo, professò correggetemi se sbaglio, che da quando nasciamo noi non facciamo altro che provare, provare, provare a renderci conto che siamo vivi. Si proprio così, non ci basta respirare, vedere, pensare. Figuratevi che non basta neppure ferirsi e vedere il proprio sangue per convincerci che siamo vivi e che esistiamo.

Li ho visti io durante la guerra, prima della disgrazia, i soldati feriti a morte. Nessuno di loro capiva che la vita, quello che li faceva respirare, pensare, se ne stava andando insieme al sangue che usciva da tutte le parti. L’unica maniera che teniamo è quella di vederci vivi negli altri, voglio dire in tutte quelle persone che abbiamo conosciuto, amato, disprezzato, odiato o solamente gli amici, tutti quelli insomma che hanno condiviso con ciascuno di noi un po’ più, un po’ meno la nostra vita. Ciascuno di quelli che ci ha conosciuto, porta nella sua vita un pezzo di noi, nella sua testa il ricordo di noi, porta con sé quel pezzo di verità sulla nostra vita, che completa il pezzo di verità che conserviamo noi di loro. Professò, voglio dire i binari, la verità di prima, cioè ognuno cammina insieme ad un altro, per dei tratti a volte lunghi, a volte brevi, su rotaie che si incrociano infinite volte con tante altre persone. Noi siamo tanto più vivi quanto più questi pezzi di noi sono vivi nella memoria degli altri, dei nostri amici, dei nostri parenti, dentro alle persone che amiamo. Quando queste persone muoiono, insieme al dolore della perdita, ci sta anche il dolore della perdita definitiva della memoria che faceva di noi delle persone vive.

Quanto più gli amici, parenti, conoscenti muoiono, più pezzi della nostra vita muoiono con loro, come se diminuisse la percentuale della verità della nostra esistenza … ecco che cosa è la piccola morte, è una morte che si porta via un po’ alla volta la vita di ciascuno di noi. Quanto più rimaniamo in vita più siamo morti. Professò, non ci rimane più nessuno sull’altro binario a dirvi che siete ancora vivo.

“Continuate il vostro racconto Ernesto, i pensieri su quella che voi chiamate la piccola morte, sono per la gente coraggiosa, e non tutta la gente lo è”. Gli occhi bianchi di Ernesto rotearono nell’oscurità di madreperla, senza trovare un obiettivo, fino a che la testa bianca si girò di lato, la mano cercò un fazzoletto nel taschino della camicia e con questo si soffiò il naso e asciugò gli occhi umidi forse di lacrime. Si girò in direzione di Amedeo e, mentre riponeva il fazzoletto, disse: “bene, Tobia rimase sconvolto da quello che stava nella rete, prima la credette morta, poi quando la toccò per vederla meglio, lei aprì gli occhi. Era viva professò, viva come me e voi, e si mosse aprendo e chiudendo la bocca. Tobia si spaventò, ma poi capì che doveva aiutarla, e così non la tirò in barca anzi, piano piano la carezzò, e scoprì che aveva una ferita proprio dietro alla testa, sotto i capelli e da quella ferita usciva sangue, non tanto, ma Tobia capì che ne aveva già perduto molto. Così delicatamente annodò un pezzo della sua camicia intorno a quella ferita, e aggiunse alla rete l’ancorotto di bordo, così quell’essere poteva stare più a fondo, senza soffrire troppo. Poi preso da chissà quale smania, decise che non la poteva lasciare in quelle condizioni, sarebbe sicuramente morta arenata tra gli scogli o falciata da imbarcazioni di passaggio, così decise di portarla all’acquario, e avrebbe potuto aiutarla a guarire. Professò, tornò a Napoli a remi, non mise mai in moto il motore per paura di ferirla con l’elica, arrivò a notte fonda, ma fu un bene, perché poté remare silenziosamente senza farsi scoprire da nessuno.

Portò la sirena a traino fino all’acquario, che prima, a quel tempo, aveva direttamente l’uscita in mare, un piccolo canale che serviva al trasporto dei materiali. Fu così che Tobia mise in una delle vasche del sotterraneo, la sirena. Il giorno dopo avvisò il direttore, il quale rimase impressionato da quello stranissimo pesce e decise di curarlo e studiarlo. In verità chi curò la sirena fu solo Tobia, poiché pochi giorni dopo l’arrivo alle vasche, ci fu l’otto settembre, e il direttore con tutti gli altri civili, andarono via in gran fretta, diciamo cosi, e di loro non si è più saputo nulla. Cominciò per Tobia un rapporto straordinario con quel pesce, se pure in gran segreto, visto che in quel periodo i tedeschi cominciarono a fare cose terribili contro i napoletani.

Fecero sgomberare la gente da Posillipo a tutta la parte costiera della città per trecento metri all’interno, e così i napoletani dovettero abbandonare case e lavoro e andare via. Tobia intanto veniva tollerato all’acquario, primo perché era matto, secondo perché accudiva i pesci, ma forse nessuno si accorse in quel periodo della sua presenza. Il comandante tedesco Scholl, ordinò poi i rastrellamenti, e quindi si arrivò alla reazione dei napoletani con le quattro giornate e la fucilazione dei civili all’università.

Tobia, per non lasciare la sirena, viveva nascosto dentro al gozzo, “l’Ardito”, e lo lasciava solo di notte e entrava dentro all’acquario percorrendo il canale di collegamento col mare, immerso nell’acqua. Così curò la sirena che guarì. Arrivarono gli americani qualche giorno dopo, trovando ancora la gente armata. Tobia non si accorse dell’arrivo degli americani, i quali lo trovarono dopo circa una decina di giorni nascosto nel gozzo, e credendolo un fascista nascosto, lo riempirono di botte. Ma qualcuno lo riconobbe e così Tobia ritornò ad accudire i pesci dell’acquario e a fare compagnia alla sirena. La notizia della sirena nell’acquario di Napoli incuriosì e divertì molto gli americani che venivano continuamente ad ammirare questa stranezza che solo a Napoli c’era. Ma per Tobia non era una stranezza, una curiosità scientifica, un essere impossibile, ma una creatura straordinaria che rispondeva ai suoi richiami, lo riconosceva, a volte sembrava che gli sorridesse.

Tobia insomma prese una certa passione per la sirena, una passione che si trasformò presto in ossessione; si allontanava difficilmente da quella vasca, mangiava quasi mai, cominciò a parlare con la sirena, e lui era sicuro che lei in qualche modo rispondeva e capiva. Questa ossessione cominciò ad essere derisa dagli altri, anche i soldati americani lo sfottevano, dicevano che s’era innamorato della sirena, e che avrebbe fatto bene a prendere un mandolino e farle una serenata.

Insomma, lui la considerava una creatura straordinaria, tutti gli altri poco più di una curiosità. La guerra è una cosa maligna, piano piano Tobia non uscì più per mare per il pericolo e i divieti del comando alleato, e così i pesci dell’acquario cominciarono a morire senza nessun sostentamento. Tobia però procurò sempre tutto ciò che occorreva alla sua protetta, anche a rischio della sua vita, uscendo di notte e pescando in posti vietati e sorvegliati”.

“Don Amedè, siamo quasi arrivati, abbiamo superato Mitigliano, tra poco accendo la lampara, preparatevi”- la voce di Jennarone spezzò l’incanto di quel racconto così avvincente per Amedeo, il quale si alzò e, traballando, andò nel gabbiotto di Jennarone, che appena lo vide disse: “le lenze stanno qui sotto la cassa dove sto seduto”- “no, no non mi servono ancora, non ci fermiamo qua, voglio andare sotto Capri, dirigete la barca sotto al monte di Tiberio, dove stanno le caverne, voglio pescare molto fondo, voglio usare una totanara nuova; è luminosa, vediamo che succede. Grazie Jennarone, è solo qualche miglio più avanti. “Va bene Don Amedè, però metto un po’ il faro, sotto Capri ci stanno scogli ovunque”. “Va bene fate come volete”. “E ditemi come facciamo con l’appuntamento con Don Gaetano, quello va a Mitigliano, e poi non ci trova” – “E che fa, Don Gaetano tiene altra compagnia a bordo, vuol dire che ci incontriamo al ritorno, tiene due luci a poppa no? Sempre lo riconosceremo”. Amedeo andò a sedersi sulla panca accanto ad Ernesto: “fumate? Io non ho fumato tutto il pomeriggio, m’è proprio passato di mente, e manco mi è venuta voglia. Prego, fumatevi una sigaretta, Ernesto”, allungò il pacchetto dimenticando la cecità dell’altro. “No grazie, professò, io non ho mai fumato”. “Scusate, vuol dire che non fumo neppure io. Ma ditemi una cosa, ma voi non credete che Tobia in qualche modo poi veramente si era innamorato della sirena?

La leggenda dice che sono esseri così fascinosi, che non lasciano speranze a nessuno che ha la mala sorte di incontrarle. Ulisse, come voi avete ricordato, si fece legare all’albero della nave e fece riempire di cera le orecchie ai suoi marinai, proprio per non sentire il loro canto. Infatti lui stesso, legato com’era, quando le sentì e le vide sugli scogli, tentò con tutte le sue forze di liberarsi e raggiungerle, tanto era forte l’attrazione che da esse proveniva.” Amedeo aveva fatto queste riflessioni quasi come se avesse accettato inconsciamente l’esistenza di quella creatura, e del possibile rapporto d’amore con Tobia. “Chissà”, rispose Ernesto. “Ma scusate Jennarone ha cambiato rotta, stiamo andando a Capri?” “Si vorrei provare la nuova totanara luminosa in un posto profondo, sapete, è la prima volta che la provo, chissà se mi capiterà più”. Ritornando al suo racconto Ernesto proseguì “Tobia a modo suo, forse si era innamorato della sirena, questo non lo so con certezza, vero è che non ha mai smesso fino alla morte di pensare a quella creatura di Dio. Dicevo prima che la guerra è una cosa maligna, ma questo lo sanno tutti … dovunque porta morte, distruzione e fame, tanta fame. La gente qui a Napoli per mangiare era disposta a fare qualunque cosa, si ammazzava, si rubava, si truffava, e i guaglioni si vendevano ai soldati americani, e le donne vendevano se stesse per un pacchetto di sigarette. Professò, lo sapete cosa si poteva comprare con un pacchetto di sigarette americane? Tre chili di pane. Con tre chili di pane si mangiava una settimana. La città di Napoli campava sul contrabbando e sulla prostituzione. Gli americani hanno vinto la guerra, hanno vinto anche la gente. Tobia, una mattina, mentre sedeva vicino alla vasca della sirena, e sempre alla sua maniera, comunicava con lei, si presentarono quattro soldati, e senza dire niente, cominciano a prendere ciò che restava dei pesci nelle altre vasche, quasi niente ormai, perché tutti i pesci che ci stavano prima erano morti per incuria o rubati per fame da qualcuno del contrabbando.

Questi quattro soldati, senza tanti complimenti, arrivano alla vasca della sirena e l’afferrano tra le risate dei quattro e gli spruzzi d’acqua che la creatura nel dibattersi lanciava da tutte le parti. Tobia cominciò ad aggredire i soldati gridando disperatamente di lasciarla, ma due di loro, mentre gli altri portavano via la sirena, massacrarono di botte Tobia con calci, pugni e manganellate sulla testa fino a lasciarlo per terra senza sensi insanguinato e tumefatto. Nessuno accorse in suo aiuto, perché tutto si svolse nel sotterraneo, dove stava la vasca della sirena. Solo più tardi, arrivò una persona che si accorse di Tobia e chiamò l’altro suo compagno rimasto di sopra. Questi due uomini, portarono Tobia fuori e riuscirono a farlo rinvenire.

Tobia sembrò riprendersi, e fu riconosciuto da uno dei due. Questi uomini erano camerieri del Palazzo dei Duchi di Toledo, dove il comandante delle truppe americane di stanza a Napoli, generale Cork, dava un ricevimento ad ospiti americani molto importanti: erano mogli di senatori, presidentesse di non so quali organizzazioni umanitarie, insomma signore venute apposta dall’America a Napoli in rappresentanza del generoso popolo americano.

Don Felice Capano, uno dei due servitori del palazzo, era di Sorrento, un galantuomo a servizio sempre di gran signori. Conosceva Tobia e spiegò che era venuto all’acquario a prendere coralli, conchiglie, alghe per decorare le portate per il pranzo del generale Cork. Tobia non riuscì a spiegare quello che era successo, farfugliò qualcosa circa il terribile accaduto, e poi svenne di nuovo. Don Felice decise di portarlo al palazzo, non aveva il tempo di portarlo all’ospedale americano, troppo lontano, e non se la sentiva di lasciarlo lì. Lo caricarono sulla jeep guidata da un soldato americano, con la quale erano venuti e tornarono al palazzo. Tobia fu messo in una brandina nel corridoio su cui apriva la grande cucina dell’antico e nobile palazzo napoletano, mentre cuochi, valletti e camerieri guidati dal maggiordomo, si affaccendavano nella preparazione della elegantissima tavola al centro della sala bianca adiacente al corridoio. Tobia, curato dal suo amico Don Felice, riprese i sensi, ma le sue ferite, anche se medicate alla meglio, non gli permettevano di muoversi, e poi Don Felice gli aveva dato dei calmanti in attesa di farlo vedere ad un medico americano il giorno dopo. Tobia non era grave, solamente era caduto come in uno stato di dormiveglia che il buon Don Felice interpretò come la conseguenza alla sua malattia.

Il generale arrivò, e anche tutti i suoi ospiti; arrivarono anche altri ufficiali del comando americano, cominciarono dalla cucina a servire a tavola. Tobia, dal posto in cui lo avevano adagiato, non vedeva quando le portate uscivano dalla cucina per raggiungere la splendente sala bianca, ma vedeva i valletti e i camerieri quando uscivano per portare i piatti e le posate da lavare, in un altro locale in fondo al corridoio che era poi il lavatoio, dove altri inservienti provvedevano al lavaggio, e quindi tutto ciò che usciva dalla sala bianca, passava proprio davanti al giaciglio di Tobia.

Da quel posto si sentiva parlare, ora in italiano, ora in americano, qualcuno rideva. Voci femminili a un certo punto si sentirono gridare, una concitazione di voci, suoni disgustati, e fermi ordini del generale ai valletti che frettolosamente uscirono dalla sala entrando nel corridoio.

I cuochi, i servitori, tutti uscirono dalla cucina e si affacciarono nel corridoio, sorpresi e stupiti da quella concitazione inattesa, e videro quattro valletti seguiti dal maggiordomo trasportare l’enorme vassoio d’argento entrato nella sala poco prima, sopra una specie di carrello coperto di seta rossa, con sopra lo stemma dei duchi di Toledo. Nel vassoio professò sapete cosa c’era? Nel vassoio, professò, c’era la sirena presa all’acquario la mattina. Era stata bollita e servita con la maionese, contornata dai coralli presi da Don Felice. Professò, gli ospiti del generale avevano gridato di disgusto e di orrore, e il generale aveva mandato via il vassoio, ordinando di sotterrare subito in giardino quella cosa mostruosa, mentre il maggiordomo della casa diceva che era pesce prelibato e molto buono. I valletti attraversarono il corridoio sotto gli occhi di Tobia come se portassero un morto al funerale e fino al lavatoio nessuno parlò. Quando Tobia riconobbe in quella orribile forma bollita, un po’ crepata, con gli occhi aperti e bianchi, circondata dall’insalata verde e dai coralli, la sua sirena, gridò tutti i gridi del mondo, gridò il dolore di tutto il popolo della terra. Professò, grazie a Dio don Felice si buttò addosso a Tobia, che impazzito dal dolore si lanciò a testa bassa contro il muro del corridoio, procurandosi solo una frattura della spalla, grazie a Don Felice”. Il rumore delle onde sembrò schiaffeggiare la mellonara, spruzzi salati arrivarono in faccia ad Amedo, avvolto in un cupo silenzio che durò fino a quando Jennarone si affacciò dal gabbiotto dicendo: “Don Amedè, ci siamo, tra dieci minuti stiamo sotto il Monte, il mare è già più forte, si rompe là sotto gli scogli, riuscite a vedere la schiuma? Io vado piano piano, poi mi dite voi dove mi devo fermare”. “Va bene, ve lo dico io, grazie”. Un gelo accidioso stringeva le membra di Amedeo, il suo cuore pulsava indeciso, il racconto di Ernesto lo sconvolgeva, non era possibile che era veramente accaduto. Improvvisamente la sua mente si rifiutò di rifiutare, quello che aveva raccontato Ernesto, era un brano de “La pelle” di Curzio Malaparte, visto non da lui, ospite del Generale Cork, ma da un povero disgraziato folle, massacrato di botte dai soldati americani e ricoverato per caso nello stesso palazzo durante il pranzo con il colonnello Eliot, il generale Cork, Mrs Flat, presidentessa del più aristocratico club femminile di Boston, venuta dagli Stati Uniti per assumere il comando delle Wacs della quinta armata. Malaparte aveva raccontato quel pranzo nel suo libro, stando seduto a quella meravigliosa tavola imbandita, in quella sala affrescata da Luca Giordano, mangiando nel famoso servizio di porcellana di casa Gerace, intento a conversare con quelle signore di altri mondi, di dolore, di dignità con delicate metafore o crude cronache. Anche Malaparte parlava della sirena servita a tavola dopo l’orrendo piatto di “Spam”, il pasticcio di carne di maiale, orgoglio di Chicago, servito con granturco bollito. Descriveva quella sirena servita sullo stesso vassoio di cui Ernesto ne raccontava i dettagli e descrivendo gli stessi contorni. Amedeo aveva sempre creduto che lo scrittore de “La pelle” avesse usato quella disperata metafora per colpire l’estrema crudeltà della guerra, l’arroganza pietosa dei vincitori sulla nobiltà dei vinti, e invece no, era tutto vero … non metafore, simboli o fantasie utili alla stesura di un libro, ma verità, come le “porcellane di Gerace”, come “il trionfo di Venere” affrescato nel soffitto della regale sala da Luca Giordano, come i parrucchini biondi che le donne si mettevano sul sesso per vendersi meglio ai soldati americani, così era vera la sirena, ultimo pesce dell’acquario nazionale, offerto in pasto ai liberatori come se fosse un’anima, l’ultima rimasta di un popolo vinto e schiacciato.

Un’anima marina, straordinariamente amata da un uomo, reso folle dallo stesso amore. “Professò, vi sento assorto, non dite neanche una parola, io sono abituato a stare solo, non mi fa paura, ma il vostro silenzio mi pesa, come se mi voleste dire qualcosa, ma non volete. Non abbiate timore, ditemi pure quello che pensate, voi non ci credete ancora vero?”.

“No Ernesto, ho rinunciato già alla mia comoda verità. Io vi credo, credo nella storia che mi state raccontando, il problema è che adesso io non credo più a me stesso, mi sento un po’ frastornato, forse per tutto quello che da ieri mi sta capitando, forse non dovevo venire qui a Massa.” “Professò, sento le onde sbattere cupe, qua stiamo sopra alle grotte, questo è il posto buono per i totani che volete voi, qua ci stanno i pesci con le ossa”.