– di Elvio Accardo –
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“Fermiamoci qua Jennarò, tenetevi sui remi che io preparo la lampara”. Una luce prima forte poi regolata, scaturì dal cono smaltato, riempiendo il mare di poppa di un opale profondo, dove milioni di microscopiche particelle vitali si rincorrevano. Il mare cupo divenne cristallo trasparente che si perdeva in un fondo lontano. Piccole schiume battevano lo scafo e tutti i profumi del nero Monte si miscelavano ai tiepidi vapori marini.
Jennarone inserì i remi negli scalmi e, con un abile gioco di polsi, tenne la barca immobile. Il silenzio si impadronì della barca, e Amedeo, con calma, accese la totanara avvitandola su se stessa e, senza rumore, al centro del cono di luce, affondò la lenza, che svolse dal grosso sughero con perizia e attenzione. Contò circa duecentocinquanta braccia, poi, cominciò, con brevi scatti repentini del braccio a tirare su, poi ricalava giù, ancora più giù, a fondo, e ancora a scatti tirava su.
Questa tecnica durò parecchi minuti, poi chiese a Jennarone di spostarsi verso il Monte. I remi non uscirono mai dall’acqua, ma la vecchia e pesante barca si spostò di quasi cento metri e si fermò ad un breve segnale di Amedeo.
La lenza, ancora a scatti, scendeva e saliva nel modo opale fino a quando la mano sensibile di Amedeo avvertì l’aggancio del totano, inconfondibile. Fu come un live risucchio, che un attimo dopo si trasforma in forte strattone, e quasi sfuggì la presa di Amedeo, che ripresosi immediatamente dal sorprendente colpo, rispose con un potente strattone, la corona di ami posta sotto la lucina al fosforo della totanara, penetrò nelle carni della preda, e la sapiente trazione del braccio di Amedeo ebbe la meglio. “L’ho preso! È grosso, si porta via la totanara, va dove vuole … ma non ti lascio, accidenti è pesante!”. Queste furono le concitate parole di Amedeo, che come ogni volta che agganciava una preda, si entusiasmava. Stavolta però tirava su un abisso nero e misterioso una cosa diversa, un peso che si spostava nella risalita, zigzagava, non aveva mai preso un totano che faceva questi movimenti. “Don Amedè, non mollate, tirate senza mollare mai, sempre con la stessa velocità, vedete che quello si stanca.” La lenza recuperata veniva lasciata cadere sulla coperta e sembrava già un grosso mucchio. Recuperare trecento braccia di lenza, con un bel peso attaccato, che si sposta in tutte le direzioni, non è impresa facile, ma Amedeo, non mollò mai, sudava, emetteva suoni sconnessi dalla bocca, erano brani di parole, soffocati o ruggiti. La lotta sembrò faticosa, Jennarone mollò i remi e si avvicinò ad Amedeo. Ernesto con gli occhi fissi sul nulla della coperta incitava: “Tirate, tirate, non vi fermate!”. Improvvisamente un enorme fiore rosso comparve nel verde del fascio di luce che penetrava l’acqua per più di cinque metri. “Eccolo, eccolo”. Gridò Amedeo, e Jennarone: “Attenzione, non fatelo sbattere sulla murata, se no vi lascia, sporgetevi di più, io vi tengo per i pantaloni”. Amedeo si sporse maggiormente per aumentare lo spazio tra la barca e il totano, che proprio come un enorme fiore rosso, ormai arreso, saliva agganciato dagli ami, e sopra, il pulsare luminoso della piccola lampada. Il totano, con un ultimo forte strappo, fu tirato a bordo: era enorme, cadde al centro della barca, e lanciò un potentissimo spruzzo d’acqua salata dal suo sifone che bagnò tutti, dappertutto. Era il totano più grande mai pescato in quelle acque, rosso come il fuoco, e il rumore che faceva la pompa del suo sifone ormai senza acqua, sembrava un rantolo, un respiro disperato. Alla vista dell’enorme totano, a bordo ci fu gioia, entusiasmo per quella cattura, ma soprattutto sorpresa, che si trasformò in breve in timore. Né Amedeo, né Jennarone gli si avvicinarono. La sua lunghezza andava dal gabbiotto a tutta la coperta di traverso, fino ai piedi di Ernesto, quindi superava i due metri, con i tentacoli ancora un po’ avvolti su se stessi. “Ma che succede Professò, è totano, o che altro?”. Allungò la mano e toccò l’animale. “Ernesto!” – disse Jennarone, – “È un totano mai visto, è lungo due metri, due metri e mezzo, professò, avete preso un totano ricchione, questo è proprio nu totano ricchione!”. Amedeo, poggiato al gabbiotto del timone, ammutolito da quell’enormità, non rispose. “Professò, se è così grande è solamente un totano ricchione, come dice Jennarone”. Jennarone, prima timidamente poi con forza e gusto, cominciò a ridere, a ridere forte; anche Ernesto rise e tutte e due ripetevano “un totano ricchione!”, come quando si vuole canzonare un compagno additandolo e ridendogli in faccia. “Buttatelo a mare, buttatelo, non voglio vederlo … Jennarone, buttatelo giù, prima che muoia, presto buttatelo, non lo voglio qui, prendetelo, forza”.
La voce isterica di Amedeo, rivelava il suo sconvolgimento e l’ansia con la quale chiedeva di ributtare a mare l’enorme totano, scopriva la voglia disperata di svegliarsi da un incubo, il desiderio di ritornare alla normalità, la voglia di vedere un totano normale, come tutti gli altri totani che lui aveva pescato prima, non quella mostruosità che lo spingeva su un sottile filo teso su un agghiacciante abisso di assurdità.
La mente di Amedeo, di fronte a quella tremenda prova, sembrò più indifesa e rassegnata. “Professò!” -disse Ernesto ad alta voce “Scusate le nostre risate, ma un totano così grosso, da Capri a Sorrento, da Positano a Napoli, nessuno l’ha mai pigliato, è una rarità, e a noi ci fa un po’ ridere perché ne abbiamo sentito parlare dai vecchi della zona. Perché, dovete sapere, si dice da queste parti, già anticamente si diceva che i totani, quando non possono fare figli, non sono dei veri totani maschi, allora sono un poco ricchioni, e non potendo fare figli, si ingrossano, come se fossero castrati, e siccome fanno paura a tutti gli altri pesci per la loro dimensione, vengono scelti per fare la guardia alle sirene, davanti alle loro caverne, tanto non fanno niente di male, spaventano tutti, ma poi non insidiano nessuno.
Le sirene si fidano di loro e non vengono disturbate; voi stasera avete calato la totanara proprio davanti alla caverna di qualche sirena, siete stato fortunato, avete avuto la prova che qua ci sta un luogo reale, vero, dove le leggende e i misteri tengono carne e ossa”. “E’ vero, Don Amedè” aggiunse Jennarone “questa storia del totano ricchione la conoscono tutti, e vedere stasera una bestia così, noi possiamo dire quello che vogliamo, ma qua c’è poco da dire, esiste, e se esiste il totano ricchione, esistono pure le sirene”. “Vi prego, Jennarone, buttiamolo a mare subito, mi fa pena sentire questo rantolo, e poi si sta già scolorendo, guardate, qua verso gli occhi, sta diventando bianco, sta morendo, prendetelo dall’altra parte, io lo afferro qui per i tentacoli, buttiamolo a mare”. “Come volete” rispose Jennarone un po’ a malavoglia, avrebbe voluto portare a terra quel mostro e magari farsene vanto. Buttarono giù nell’acqua luminescente l’enorme totano, che, come un sacco vuoto e flaccido, galleggiò per qualche istante, poi si inabissò lentamente, ma era ancora vivo. “Torniamo a Massa, Jennarone, ne ho abbastanza di totani per stasera, scusate la mia reazione, è che non so spiegarmi perché mi ha messo una tale agitazione che non me la sono sentita di tenerlo qua a bordo, mi sembrava di vedere una persona affogare piano piano in fondo all’aria, come se si potesse morire ingoiando e respirando aria e non ingoiando e respirando acqua. È difficile spiegare chiaramente quello che ho provato, ma quella del totano ricchione mi sembrava una morte esagerata”.
Jennarone mise in moto il vecchio diesel, e si avviò direttamente verso Massa Lubrense, evitando di tornare sotto costa. “Professò accomodatevi vicino a me, io credo di aver capito quello che avete provato. È un po’ quello che ha provato Tobia, quando ha visto la sua sirena cotta, bollita in quel vassoio. È stata una morte esagerata pure quella.” La mellonara si allontanava dal Monte Tiberio pulsando cupa, e il mare cedeva all’onda procurando un rollio simile al movimento di una culla. A bordo, i pensieri di Amedeo ed Ernesto godettero di questa pausa antica.
“Ernesto, vi prego di arrivare con il vostro racconto al mio diretto, ma inconsapevole coinvolgimento con la vita di Tobia. A parte quel po’ che ho conosciuto quando era guardiano del” S. Filippo”. “Professò” – disse Ernesto – aggiustando la posizione della fisarmonica che, nella virata della mellonara, l’acqua spruzzata dall’enorme totano, era arrivata in un rivolo a bagnarla. “La storia non è più tanto lunga, io vi posso specificare bene come l’Ardito” divenne il “S. Filippo”, e senza che nessuno lo avesse mai saputo, solo Tobia, lo riconobbe, professò. In fondo al corridoio tra la sala bianca e la cucina del palazzo del Duca di Toledo, si svolse in pochi secondi la tragedia della vita di Tobia, perché da allora, diventò veramente pazzo. I servi e gli altri accorsero e bloccarono Tobia, che voleva correre appresso a quel vassoio maledetto, che portava in giardino la sua sirena cotta per seppellirla, come aveva detto il generale Cork, ma lo rinchiusero nel lavatoio e lì cercarono di calmarlo. Macchè, non riuscirono a tenerlo a quattro di loro, tra aiuti cuochi e servitori, dovettero legarlo. Il pranzo praticamente finì poco dopo, e quando Don Felice chiamò il maggiordomo, un gran signore, molto apprezzato nell’alta società napoletana, che però non si era mai mischiato con fatti politici, gli disse tutto quello che era successo. Il maggiordomo vide in che stato si trovava Tobia e andò a parlare con un ufficiale del comando alleato che teneva l’ufficio al piano di sopra. Questo scese giù, e ordinò ai soldati di portare subito Tobia al loro ospedale dove lo avrebbero prima di tutto calmato con i medicinali che solo loro tenevano, e poi lo avrebbero medicato e ingessato la spalla rotta. Tobia restò all’ospedale americano a Napoli due mesi, quasi sempre legato al letto, con tutto il gesso al braccio e al petto. Da lì, lo mandano in altri ospedali italiani, e li girò praticamente tutti, per anni. La sua follia sembrava sempre più grave, e tutti gli specialisti che lo visitavano, dicevano che era fissato, voleva la sirena, che avevano ucciso la sua anima e se la volevano mangiare, e cose sempre più farneticanti per i dottori, fino a quando gli fecero anche le correnti elettriche alla testa. Tobia, allora, si ammutolì, non parlò più, con gli occhi sempre fissi in un punto lontano.
Questo per molto tempo, poi lo trasferirono al manicomio di Aversa, e lì Tobia si perse definitivamente insieme alla sua sirena. In quanto all”Ardito”, Don Felice disse al maggiordomo che Tobia faceva il pescatore per l’acquario nazionale, e quando il maggiordomo riferì all’ufficiale del comando tutta la storia, questo capì che il gozzo era di Tobia, e anche per non creare voci sull’accaduto, nel palazzo del Duca di Toledo, mandò il gozzo a Sant’Agnello, alla sorella di Tobia, che era vedova con due figlie femmine. Caterina, così si chiamava la sorella di Tobia, non sapeva che farsene del gozzo, e lo diede in fitto ai pescatori di S. Agnello, e per buon augurio chiamò la barca Maria SS. Della Lobra… voi conoscete S. Agnello, quel paese vicino Sorrento. Caterina prendeva qualche lira che insieme a quello che guadagnava come ricamatrice tirò su le figlie.
Nel ’69, Tobia, ormai ridotto ad una specie di vegetale, viene affidato alla sorella, la quale se lo tenne in casa per fruire della sua pensione di invalido di guerra. Tobia passava le sue giornate e pure le nottate, fuori, sul porto di S. Agnello. Caterina praticamente lo aveva abbandonato. L’anno dopo, per interessamento del parroco della “Madonna del Rosario”, la chiesa sul porticciolo di Sant’Agnello, Tobia venne accolto dai monaci di Massa Lubrense, suo paese natale, e quella santa persona di Padre Leonardo lo fece alloggiare con me, dove voi sapete, su al convento dove abito io”. “E “l’Ardito”? Dove va a finire?” – chiese Amedeo. “L’Ardito” finì sugli scogli qualche anno prima, e fu tirato a secco là dove l’avete trovato voi, a Puolo. Sotto al sole, all’acqua e al vento, con i bambini che ci giocavano, ben presto diventò quello che voi avete comprato”.
“Io ricordo di aver parlato con zia Tatella, dopo che avevo fatto una passeggiata a Puolo con Rosanna, avevo visto questa barca rovinata e abbandonata, ma mi piaceva, anzi piaceva molto a Rosanna, e così chiesi a zia Tatella se conosceva il proprietario, perché l’avrei comprata e aggiustata per far felice Rosanna. Zia Tatella, il giorno dopo, venne da me con una campanella di bronzo, e mi disse che la proprietaria era morta, ma la figlia me la dava volentieri per cinquantamila lire.
Così pagai ed un camion lo caricò e lo portò a Sorrento, dove la bottega di Antimo, il maestro d’ascia giù al porto, me la riparò e la pitturò con i colori che aveva prima, nero e rosso. Rosanna mi chiese un nuovo nome per quel magnifico gozzo, perché poi ne uscì veramente una meraviglia dalle mani di Antimo, e io dissi che mi sarebbe piaciuto chiamarlo “S. Filippo”, come il nome di mio padre che avevo perduto l’anno precedente. Poi lo sapete, fui contento di affidare quella barca a Tobia, me lo raccomandò zia Tatella, mi disse che era un’opera buona far guadagnare qualche lira a Tobia, era povero e bisognoso, ed era ospite del convento. Tobia si rivelò subito l’uomo giusto, mi piaceva quel suo silenzio, quando stava con il “S. Filippo”, gli ridevano gli occhi. Ernesto, Tobia l’ha tenuto dieci anni, e al gozzo io non ho fatto mai niente, faceva tutto lui, lo trovavo fatto senza chiederlo, una manutenzione perfetta, è per questo che quando me ne sono andato a Roma ho dato a Tobia il “S. Filippo”. In fondo io non avevo già più nulla qui a Massa, tutto era cambiato, Rosanna sposò Gaetano, e per me il gozzo non contò più nulla, quindi glielo donai con piacere. Ero certo di lasciarlo ad una persona che amava il mare e anche la mia barca”.
“Professò, è tutto vero quello che avete detto di Tobia, era cambiato, quello viveva con me, e lo posso testimoniare, è stato questo il periodo felice di tutta la sua esistenza. Tobia aveva riconosciuto “l’Ardito”, la barca dell’acquario nazionale di Napoli, con cui aveva preso la sirena. Professò, Tobia negli anni che è stato col “S. Filippo”, andava a dormirci dentro, tornava al convento poche volte, amava stare vicino alla barca anche di notte. Negli ultimi tempi mi diceva spesso che sarebbe tornato a Capri sotto Tiberio a togliere tutte le mine e un giorno di quasi otto anni fa, Tobia si avviò a Capri con il “S. Filippo”, per lui l’Ardito”, disse a me che andava a pesca, invece arrivato a Capri, sotto il Monte Tiberio, proprio dove siamo andati stasera, ma più sotto agli scogli, Tobia si avvolse interamente nella rete, agganciò l’ancorotto alla cima della rete e si buttò a fondo. Così muore Tobia. Il “S. Filippo” si sfascia completamente sugli scogli, ma i carabinieri che ripescano il gozzo, trovarono un’altra ancora a tre marre incastrata nelle tavole sfondate del fondo, Tobia prima di suicidarsi, sfondò l’Ardito, e poi si affogò.
I sommozzatori del nucleo dei carabinieri di Sorrento lo trovarono tre giorni dopo, agganciato, con la rete che lo avvolgeva, agli spuntoni di roccia della parete del Monte, a circa cinquanta metri di profondità, proprio dove cominciano i coralli.
Tobia non riuscì a raggiungere il fondo neanche col peso dell’ancorotto agganciato ai piedi.
E così,” l’Ardito”, il vostro bel gozzo, il “S. Filippo,” dopo che i carabinieri lo sganciarono dagli scogli, andò a fondo, proprio dove avete buttato stasera la totanara. Tobia e quella barca erano una sola cosa, nessuno dei due poteva sopravvivere all’altro. La campanella di bronzo stava ancora sull’asta di prua quando affondò, e dicono che i pescatori che trovarono la barca sugli scogli, sentivano da lontano la campanella che suonava ogni volta che le onde facevano sbattere il gozzo e arrivarono lì guidati da quel suono. Qualche pescatore passando sotto Tiberio dice di sentirla ancora, specialmente quando c’è un po’ di mare, e lì non manca mai”. Amedeo rimase muto per un po’, poi disse: “è sconvolgente, nessuno mi ha mai parlato di questa tragedia, non ne ho mai sentito niente”. “Professò, ma nessuno poteva dire niente, per tutti fu solo una disgrazia capitata ad un povero pazzo, che era inciampato nella rete trascinandosela a fondo insieme all’ancora. È una cosa che può capitare ad un malato di mente come Tobia, che si avvia irresponsabilmente a pescare da solo, così lontano. Professò sono passati otto anni, ma il giorno dopo, qua nessuno se lo ricordava più”. “Da quando sono ritornato a Massa, mi stanno capitando solo cose straordinarie. Tutta la giornata passata con Rosanna, non è stato altro che un susseguirsi di sconvolgenti episodi. Io avevo chiuso come in una cassaforte tutti i miei ricordi ed ho accettato l’invito di Rosanna, senza trepidazioni, poi qui si sono scatenate mille strane situazioni, che hanno completamente distrutto quella barriera, l’ultima, il vostro racconto.” “Professò, di sconvolgente, io credo, perdonatemi se mi permetto, ci sta solo la signora Rosanna. Consideratemi un padre, vi prego perdonatemi, io la signora la conosco da bambina, so com’è vissuta, so quanto è stata poco fortunata, ma voi no, voi siete molto fortunato, voi oggi avete guardato con gli occhi miei, scusate senza offesa ma, voglio dire che avete potuto leggere dentro l’anima delle cose, vi si sono aperti per poche ore, tutti i libri segreti dell’esistenza, ma forse si sono aperti tutti insieme, e voi fate fatica a leggere e capire tutto, ma non dubitate, capirete, e capirete anche che siete fortunato”.
“Fortunato? Non mi pare proprio, tutto quello che ho sofferto in questa giornata non l’ho patito nei 10 anni che sono stato a Roma.” “Ma che dite, voi avete preso il vostro totano ricchione, vi pare niente? È vero tutti possono incontrare il proprio totano ricchione, ma quanta gente non ci fa caso? Quant’altra non tiene la forza di ributtarlo a mare? Come avete fatto voi, e poi quanta gente spera di trovarlo e non lo trova mai? Eh si, la vostra è una grande fortuna, è un’esperienza che sconvolge è vero, è una frustata feroce, è una violenta lacerazione che la mente e l’anima deve subire per poter riscattare la paura, il terrore dell’esistenza con gli altri, lo spavento di fronte alle incognite della vita e della morte. È il prezzo per la propria mediocrità. Don Amedè, senza totano ricchione nella vita è difficile cambiare, molto difficile, senza essere ciechi e molto difficile vedere.” “Ci sta la barca di Feliciello sotto costa, tiene le due luci a poppa” disse Jennarone affacciandosi al gabbiotto – “accosto?” Amedeo si alzò e avvicinandosi a Jennarone disse: “no, tirate dritto, andate al porto, non accostate, e spegnete il faro, voglio arrivare in porto al più presto”.
“Come volete. Ernesto, hai portato la fisarmonica senza manco farci sentire una canzone, forza oggi è festa, cantaci qualcosa” mentre diceva queste parole, Ernesto già prendeva la fisarmonica e cominciava a suonare. Nel cielo del porto, comparvero i primi scoppi colorati. Jennarone disse indicando il cielo: “stanno rientrando le barche della processione, sono cominciati i fuochi, sparano dallo zatterone, ci conviene virare largo”. Amedeo poggiato al gabbiotto alzò gli occhi al cielo nero, che faceva da sfondo a meraviglie luminose che si riflettevano sul mare, inondandolo di luce colorata. “Basta che ce sta o sole, basta che ce sta o mare”, Ernesto cantava allegro accompagnandosi con gli accordi sostenuti dello strumento, che, illuminato ora di rosso, ora di verde, ora di giallo, evidenziava l’argento del marchio “Castagnari”. “Ernesto” – disse ad alta voce Jennarone, “questo è sicuramente o “cinese”, sta sparando le granate col mortaio dalla piattaforma”. Ernesto col viso rivolto al cielo, in un roteare scomposto dei globi oculari cantava:” chi ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato, scurdammoce o passato…” Amedeo incantato, seguiva le cascate colorate in un continuo rombare profondo, interrotto da scoppi e lunghi fischi luminosi.
La mellonara arrivò in vista del porto, si distinguevano le barche e le paranze che avevano partecipato alla processione a mare. Le imbarcazioni facevano scendere la gente sulla spiaggetta o accostavano per far sbarcare i fedeli, che a mano a mano ricomponevano la processione che avrebbe ricondotto la Madonna al Santuario.
Ernesto, poggiando il capo sulla fisarmonica, disse: “Professò, adesso ci sta Trematerra, è uno spettacolo mondiale … Jennarò questo è il finale do’ cinese, ha chiuso con “l’intreccio e la controbomba,” adesso Trematerra sentite che fa”. In quell’attimo, dallo zatterone partì una granata, sparata nell’acqua, e dopo poco dal mare partirono rompendo l’acqua una ventina di razzi che esplosero bassi, colorando il mare e il porto di un rosso vivo; contemporaneamente una gran quantità di bengala si accesero sull’acqua infiammandola di bianco e argento. L’entusiasmo di Ernesto era quello di un bimbo, quando disse indicando il cielo con la mano: “E questo è uno “stucchio”, Professò, è una cannonata sparata sott’acqua, con la miccia corta, e poi i razzi salgono proprio da dentro l’acqua, Trematerra ha pensato a un preludio, come in un concerto, e questa è l’apertura”. Cinque colpi fecero tremare la mellonara, che lentamente si avvicinava al porto. “E questi sono i colpi scuri, è un’apertura barese-” disse Jennarone.
Otto colpi potenti infiammarono il cielo da tutti i lati con enormi fiori colorati, insieme esplosero cinque bombe che lasciarono cadere cascate immense di scintille e stelle colorate. “Professò, queste sono bombe giapponesi, la prossima è una” bomba a cacciata”, vuol dire che cambia il finale, e visto l’apertura, sarà una cosa mondiale”.
L’entusiasmo cominciò a prendere anche Amedeo, che sorrideva e godeva di quel suggestivo spettacolo, come se fosse la prima volta, lasciando spazio anche a quel timore arcaico che sempre producono le esplosioni; da quel momento divennero continue, lasciando il cielo infuocato di colori, cascate d’oro e d’argento, giardini fioriti con milioni di corolle brillanti, oceani di luce che lasciavano storditi e incantati.
“Don Amedè” – gridò Jennarone- “questa è la” stutata”. Una bomba senza colore esplose nel cielo, al centro di mille altre esplosioni minori, contemporaneamente un’altra cambiò i colori del cielo. “Professò”, disse Ernesto al culmine di un’infantile gioia non repressa, “questa è una “controbomba”, e questo è un controcolpo”. Sembrò ad Amedeo che Ernesto non fosse più cieco, che il buio orrendo al quale era destinato e rassegnato, avesse avuto uno stravolgimento, che Ernesto quei fuochi straordinari, li vedesse veramente, ma non chiese nulla, gli sembrò normale, nulla di straordinario nelle descrizioni che Ernesto faceva. “Questo che viene adesso è il finale, professò tenetevi stretto, Trematerra non scherza coi “colpi scuri”. Cominciò nel cielo una tempesta di esplosioni che si susseguirono per venti o trenta volte; ogni colpo lasciava nel cielo una luminosissima scia, seguì una serie di esplosioni spaventose, che resero il cielo esausto, senza luce. L’addome di Amedeo era contratto per arginarne la pressione e un capogiro lo costrinse a tenersi stretto al parapetto, chiudendo gli occhi ad ogni esplosione, mentre la mellonara, in una girandola di luci, attraccava al pontile.
Amedeo, appena la barca accostò, scorse la processione che risaliva la scalinata di pietra che portava alla Piazza del Santuario. “Grazie di tutto Ernesto, grazie pure a voi Jennarone, non mi dimenticherò di questa serata, addio”. Saltò dalla barca e di corsa si allontanò incontro alla processione.
“Don Amedè” -gridò Jennarone alzando e agitando il bastone di Amedeo raccolto sotto la panca- “il bastone, l’avete dimenticato, il bastone sta qua, tornate!”.
“Lascia stare Jennarò”, disse Ernesto abbottonando i clips della fisarmonica. “A Don Amedeo non serve più”.