IL DIARIO – terza e ultima puntata

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    –     di Elvio Accardo    –             

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Mi seggo a tavola e guardo l’ora, sono le 18,30. Unico mio desiderio mancato stasera, o forse un rimpianto, è quello di non aver conosciuto Mafalda.

– 18 ottobre 1917. La sera stessa che Pasquale Carusone è venuto a prendermi alla polizia del porto, mi ha chiesto i soldi da mandare a Rosa la moglie di Peppino Conza, glieli ho dati subito consegnandoli anche il biglietto.” Di questo biglietto non sapevo niente, che ci sta scritto? “Glielo leggo e mi risponde con un: “era nu buono picciuottu, pace all’anima sua e salute a noi”. In questo paese, tutti sanno tutto, i poliziotti, la mano nera, il sindacato scaricatori, Carusone. Io non so niente, io non so niente.

– 29 Novembre1917. Sto da dieci giorni in casa di Carusone, ho conosciuto la moglie e le figlie, hanno un cane che si chiama “Brif, “un cane lupo. La moglie si chiama Teresa, e posso dire che mi tratta bene. Stamattina Carusone mi ha chiamato e mi ha detto di aver trovato un buon lavoro per me, un lavoro che mi farà guadagnare molto se ci metto impegno, e siccome la sostanza già la tengo, a me bastano poche lezioni e molta pratica, e arriverò dove voglio. Da domani mi trasferisco alla palestra di un suo amico che si chiamo “Big sin” e diventerò un boxer, farò degli incontri con altri boxer a cominciare dalla vigilia di Natale, Io ho detto no, non era per me, lui mi ha risposto che: “la tua libertà te la devi guadagnare, e questo è un buon mezzo per fare anche presto.”

L’ultimo foglio che ho girato, si è staccato, mentre lo scollavo con la saliva. Le pagine da qui, mi sembrano più scure, macchiate da qualcosa color ruggine.                                               La pioggia ha ripreso, il vento la spinge sui vetri delle finestre producendo un rumore secco come se cadesse su assi di legno, mi alzo dal divano e vado a versare anice nella tazza, la pizza forse pretende, per essere digerita bene, maggior disimpegno emotivo, ma il massimo che riesco a fare è distendermi sul divano e continuare a seguire le peripezie a cui Eduardo è sottoposto.

Ho fatto fino a oggi quattro incontri, due in un giardino di Malberry street, al centro di Little Italy, è venuta poca gente, mi hanno dato cento dollari. Nel secondo e terzo, fatto in un giardino in una villa fuori New York sono venute moltissime persone, tutti facevano scommesse, hanno guadagnato moltissimi dollari. Io ho vinto sempre ma i pugni li ho presi, tanti. Carusone è molto contento di me, ha detto che stasera combatterò contro un negro, lo devo massacrare, lui crede in me, verranno anche le sue due figlie a vedermi, sono il più forte, mi ha dato un nuovo nome che terrorizzerà i miei avversari, mi chiamo: “Big Napoli”.

– 30 novembre 1917. Devo stare in ospedale per altri due giorni, ho il labbro con sei punti e il sopracciglio con quattro punti, sono tutto gonfio e dolorante, non vedo dall’occhio sinistro, il medico ha detto che guarirò presto. È venuta Teresa, la moglie di Carusone, ha portato il mio sacco con le mie cose e mi ha consegnato cento cinquanta dollari: Ha detto che Pasquale suo marito e Big Sin mi salutano, Carusone mi manda a dire che ho pagato il mio debito, la mia libertà. Le guardie di polizia l’hanno riaccompagnata fuori dalla camerata dove sto con altri undici ammalati, io sono un sorvegliato speciale in arresto con due poliziotti a fianco a me. Mi hanno detto che gli incontri di box clandestini sono vietati, quelli che faccio io, ma ieri sera sono venuti ad arrestarmi perché stavo perdendo l’incontro, e non avrebbero permesso ad un negro di vincere il combattimento contro un bianco.

 – 9 dicembre 1917. Mi hanno portato alla stazione di New York con un carro chiuso trainato da cavalli, un wagon transport con sbarre di ferro ai finestrini e alla porta, come fossi un gran delinquente, seduti intorno a me quattro poliziotti. Ho rimesso il diario nel pantalone, il sacco con le mie cose e pure i dollari lo hanno sequestrato. L’occhio e il labbro si sono sgonfiati, ma non vedo bene, e non posso parlare, mangio solo le cose liquide che mi danno, perché il labbro mi fa male. Sono salito in un carro ferroviario per trasporto di carcerati, ovunque sbarre, non mi hanno tolto i ferri dai polsi, insieme a me altre otto persone, che cantano canzoni napoletane o venete, ci portano a New Haven dove un giudice deciderà dove finirò e per quanto tempo. Spiegherò tutto, chiarirò la mia situazione e sono sicuro che mi rilasceranno. Ho chiesto alle guardie di andare a fare i miei bisogni, cosi ho potuto scrivere questi righi. Chiuso in questo piccolo sgabuzzino ho pianto, il dolore per la lontananza dei miei cari, soprattutto per la mancanza di Mafalda mi strazia, è sola, con un bambino che deve nascere.

– 12 dicembre. Arrivati a New Haven, ci hanno chiuso in cella per quattro giorni. In un camerone siamo più di cinquanta, puzza ovunque c’è chi piscia negli angoli perché c’è una sola latrina, tutti dormiamo per terra su giacigli di paglia, e da mangiare ci portano un brodo con pezzi di patate e un pezzo di carne dentro. La carne la dò a un carcerato che si chiama Giovanni, tutti gli altri lo chiamano “a cascetta” perché ruba le offerte che si fanno in chiesa per i poveri. È capace di svuotare le cassette delle elemosine senza aprirle usando una forcina per capelli. Giovanni è di Procida, sta in America da due anni, conosce la famiglia di Mafalda perché Angiolina la donna di famiglia dei Guevara è sua zia. Il mondo è veramente piccolo, può stupire un incontro del genere, ma per me è stato come accorciare la distanza tra me e Mafalda. Giovanni mi è grato dei pezzi di carne che tolgo dal mio brodo per darlo a lui.

Avvolto nel mio plaid, con il cappellino della mia prozia sulla pancia, guardo il grosso lampadario che dal soffitto illumina la sala, mi viene di contare gli innumerevoli pendagli di vetro che pendono,  ne conto sessantaquattro, nella fila bassa, nella seconda fila sono… Ma dove vado con la testa, questa cronaca cruda raccontata dal povero Eduardo, mi avvince, e mi trascina lontano come in un tunnel dove tempo e spazio non hanno confini, si fondono in una amalgama compatta da cui non ti liberi,  lascia senza parole. Conto anche la seconda fila di pendagli, ne sono quarantadue.

– Il giudice Samuel D. Jackson, un vecchio stanco con basettoni bianchi fin sulle guance, dopo aver pronunciato altre ventisei sentenze prima della mia, mi ha fatto entrare nell’aula, letto i miei documenti, e senza fermarsi mi ha condannato a diciotto mesi di carcere da scontarsi al carcere di “South Braintree” a Boston, e poi rinvio in Italia come soggetto non gradito. Non mi ha fatto dire neanche una parola, e mentre l’interprete mi diceva in italiano la sentenza, le lacrime mi scendevano sulle guance senza piangere. “Giovanni ‘a cascetta” è stato condannato a due anni da scontare nello stesso carcere.

Non so più che pensare di questo povero disgraziato di Eduardo, neanche la possibilità di difendersi in qualche modo, una condanna data senza alcun contraddittorio, avrebbero anche potuto dargli cent’anni, nessuno avrebbe opposto qualcosa.

La mia gola si fa sentire, vado in cucina e preparo un caffè bollente che bevo con piccoli sorsi pensando che da questa parte dell’oceano Mafalda non stava meglio.

–  8 luglio 1918. Il mio diario è tornato a me. Quando sono arrivato al carcere di Boston mi hanno spogliato, il quaderno me lo hanno sequestrato insieme al lapis, hanno chiuso tutto nel mio sacco. C’erano anche duecento dollari che avevo guadagnato con i combattimenti, e trenta lire italiane delle cinquanta che avevo portato per il viaggio sul “Duca degli Abruzzi”. Prima mi hanno buttato addosso il d.d.t, per gli insetti che tenevamo addosso tutti i carcerati, poi mi hanno dato un calzone una maglia e una camicia blu col n° 6646 stampato sopra. Giovanni l’hanno trasferito nella mia cella nel mese di maggio ne sono stato molto contento siamo diventati amici. L’hanno trasferito per convincermi a ricominciare a fare la box, incontrando altri carcerati giù nel cortile dell’aria una volta a settimana, glielo hanno chiesto i guardiani già d’accordo con il direttore. Giovanni sottovoce ha detto. “Hanno saputo che sei “big Napoli” un bravo boxer dal fascicolo, e vogliono da te questo impegno”. Ho risposto che non volevo più fare la box, lui mi ha risposto: “Eduardo, questi non scherzano, non te l’hanno chiesto, te lo hanno ordinato, il direttore ha consentito a fare anche le scommesse tra i guardiani e i carcerati, Eduardo, tu prendi anche una quota, dollari sonanti. Se ti rifiuti hai finito di campare, proprio cosi, hai finito di vivere. Così ho fatto quello che volevano loro, ogni settimana incontro giù nel cortile qualche carcerato che pur di guadagnare qualcosa si fa riempire di pugni, il direttore con le guardie seduti sulla balconata alta cinque metri, alle spalle dei carcerati, e con i fucili pronti, fanno scommesse, pure con belle cifre. Io dopo quindici incontri vinti, sono pieno di cicatrici, e denti rotti. Giovanni è il mio allenatore e fa qualche scommessa pure per me, ho guadagnato abbastanza per comprarmi la possibilità di riavere il mio diario, e oggi ci sono riuscito. Il guardiano Mike Difonso, ha consegnato al direttore cinquecentoventi dollari miei trattenendo per se ottanta dollari, il mio diario adesso è qui, e un po’ di libertà l’ho pagata, cara e amara, come diceva Peppino Conza.

Trovo allucinante questo viaggio che sto facendo nel passato, i brividi mi accompagnano senza tregua, una storia così intensa, e emozionante capitata nella mia famiglia, mi sgomenta.  Da una storia d’amore cosi tenera, si passa a un bambino  che deve nascere , un padre che ha già deciso il destino della figlia, una fuga in America, un incontro con due killer chiamati dalla mano nera americana per un delitto a New York, la trasformazione di uno studente in pugile  al servizio della scommesse clandestine, e ancora la polizia sempre complice della malavita, un processo farsa con una condanna senza contraddittorio, un carcere dove vince lo stesso reato per cui stai in carcere, e per ultimo, e non ultimo, la corruzione . Ce n’è per tutti i gusti, smetto di provare a dedurre quello che succede nelle poche pagine rimanenti, che sfoglio con massima attenzione con la mia saliva e le dita della mia mano. Riavvicino la cloche al naso, e il lieve profumo di pesca della pelle della mia prozia Mafalda mi riporta alla bellezza.

– 3 settembre. Stamattina il direttore ha letto una comunicazione pervenuta dal ministero della sanità tramite il ministero della giustizia, l’ha letta con il megafono dall’alto del muro che circonda il cortile dove facciamo l’ora d’aria. Diceva cosi: 

Oggi 3 settembre 1918, questo ministero sempre molto sensibile delle sorti della nostra amata terra, conquistata col sangue dei nostri padri, cresciuta con il lavoro e sulla libertà sancita dalla nostra costituzione, vuole porre un freno ad un triste fenomeno che serpeggia malignamente nelle nostre case, uccidendo bambini, donne, giovani e vecchi, su tutto il nostro amato paese. Questo morbo viene da lontano, è arrivato qui dall’Europa, infettando anche i nostri soldati impegnati eroicamente sui fronti dell’Europa. Questa pericolosa piaga prende il nome di: “Febbre Spagnola “, e per adesso, un autorevolissimo gruppo di scienziati americani, è già vicino alla soluzione del grave problema avendo già creato un farmaco che è l’antidoto di questa “Febbre Spagnola”. Pertanto, questo Ministero, offre a voi, considerati ancora uomini in cui il sacro fuoco della umanità non si è spento, la possibilità del riscatto dalle colpe ascritte, sottoponendovi alla somministrazione   del farmaco creato dai nostri scienziati. In cambio questo Ministero, grato del vostro atto civile e nobile, vi restituisce la libertà, vi concede la grazia cancellando per sempre la vostra colpa dai registri giudiziari.  Coloro che intendono liberamente contribuire agli esperimenti suddetti, comunicheranno il loro nome al direttore, e saranno trasferiti al carcere militare di: “Deer Island” nel porto di questa città: Boston, dove incontreranno il gruppo di scienziati che attuerà la sperimentazione.

La comunicazione del ministero è stata letta anche in italiano e in spagnola. Quando i carcerati di lingua spagnola hanno capito di che si trattava, hanno protestato gridando e minacciando, dicevano che questa infezione non era venuta dalla Spagna ma dall’Italia e si chiama “mal’ Napolitano” o mal franzese. Sono successe delle risse tra i carcerati, ma le guardie li hanno separati a bastonate.

– 4 settembre 1918. Io e Giovanni  abbiamo accettato di sottoporci alla sperimentazione dei farmaci, io perché non resisto più chiuso qui dentro, devo fare ancora un anno, e mi struggo pensando alla vita che ho lasciato, al mio amore per Mafalda, a mio figlio, alla mia famiglia, ai pugni che sono costretto a dare e a ricevere per poter sopravvivere in questo inferno dimenticato da Dio, e adesso Dio mi da una possibilità di riscattare i miei errori, le mie immaturità le mie inesperienze,  io ci devo provare, ne va della mia vita. Giovanni invece dice che vuole ricominciare, tornare a Procida e continuare a fare quello che faceva il padre: il pescatore. La nostalgia è forte e poi prima, quando stava nell’altro corridoio, un carcerato si è tolto la vita, impiccandosi nella cella dove stava insieme ad altri otto, e nessuno lo ha fermato, neanche lui.

Non voglio provare nemmeno a commentare queste pagine del diario, sono allibito da questa manifesta volontà di Eduardo a sperimentare questo farmaco pur di uscire da questo incubo americano. Diventare una cavia umana nella speranza di tornare libero e raggiungere il suo amore, il suo bambino. Con il cuore in tumulto sfoglio le ultime pagine umettando con la mia saliva ancora una volta i bordi color ruggine incollati e fragili.

– 6 settembre 1918. I carcerati che hanno accettato di sottoporsi a questi esperimenti sono più di trecento, ma ne hanno scelto settantadue, io e Giovanni siamo stati tra i primi a essere scelti. La prigione militare di “Deer Island” è un ospedale dove vengono reclusi i militari colpevoli di reati, malati o feriti, sta proprio sul porto di Boston. Io e Giovanni aspettiamo il nostro turno per sottoporci all’esperimento. Le guardie ci hanno portato in fondo a un lungo corridoio, in una stanza da cui uscivano barelle con quelli che erano già stati trattati, li hanno trasferiti in camerate più avanti per aspettare i risultati. Ci hanno fatto spogliare poi sdraiati sul lettino ci hanno legati con le cinghie. I medici sono quattro, uno si chiama “dottor Parker” è lo scienziato che da gli ordini. Ci ha letto un protocollo di cui dobbiamo essere informati. Prima fase: vaccinazione con rimedio A1 N3 rimedio scientifico contro il morbo della febbre spagnola. Seconda fase: introduzione nel soggetto del virus con estratto di tessuto polmonare prelevato da cadavere infetto, attraverso siringa. Terza fase: esposizione di naso e bocca e occhi ad aerosol infetto. Quarta fase: tamponatura del cavo orale faringeo con secrezioni di pazienti malati o morenti. Quinta fase: paziente in corsia allettato, con assistenza. Attesa risultato nelle ventiquattro ore successive.

 Mi sono sottoposto a tutti questi orribili passaggi, resisto con tutta la mia forza pensando che rivedrò Mafalda e mio figlio. Nel letto accanto a me Giovanni sta già meglio non vomita sangue come me, ha un respiro regolare, il medico ha detto che devo controllare il più possibile il rantolo del mio respiro, ma se non fosse per i conati di sangue che qualche volta mi soffocano, riuscirei a controllarmi meglio.

– 7 settembre. Oggi Giovanni sta in piedi accanto a me, si sente bene, questo mi fa sperare, forse il mio fisico ha subito troppi indebolimenti per la box, ma non mi lascio prendere dallo sconforto anche se Giovanni mi ha detto che nel pomeriggio ho perso conoscenza, a causa della febbre alta, io non me ne sono accorto. Mi ha raccontato che quando era nell’altra cella dove quel suo amico si è suicidato, ci stavano altri casi con la stessa malattia, ricorda bene tutto, avevano gli stessi vomiti, i dolori per tutto il corpo. Ho detto a Giovanni che non avevo paura di niente, davanti agli occhi avevo il viso di Mafalda e quello di mio figlio, e somigliava a me. Poi ho detto: “Giovanni, qualunque cosa di brutto mi dovesse succedere, quando ritorni a Procida porta le mie cose a Mafalda, portale anche questo diario e dille che non c’è niente su questa terra più bella di lei. Adesso voglio pregare Giovanni, lasciami stare.

Mi alzo dal divano, mi aggiro per la casa senza uno scopo, guardo le cose senza vederle, mi sento svuotato, e se non fosse per il bruciore alla gola e qualche colpo di tosse, direi che sono un fantasma, una entità senza dimensione. Ho chiuso il diario lentamente, posandolo accanto alla cloche di Mafalda, guardo le lenzuola nel baule e guardo l’ora, mancano solo quindici minuti all’appuntamento al bar di Graziano, mi preparo indossando un giaccone della marina norvegese regalatomi da Josèca il mese scorso, è a prova di polo nord, indosso un cappuccio blu, e scarpe anti pioggia, mi avvio sui miei trecentocinquantasei passi, ma non piove, ne fa più freddo, penso che non me ne va bene una oggi. Domani riparto per Amsterdam, e starò con Josèka, penso che potremo passare il prossimo week and qui a Miglio d’oro, siamo di riposo entrambi. Devo ricordarmi di chiamare il tecnico per aggiustare la caldaia, lascerò le chiavi a Graziano.

L’atmosfera è quella di sempre, allegra e piena di fumo di sigarette, ma per una volta non ci faccio caso, tutti mi abbracciano, Graziano mi offre subito panini al formaggio e vino rosso del Vesuvio, credo sia “per e palummo”. Il mio compare non è ancora arrivato, prego Graziano di chiamare il tecnico per la caldaia e dico che lascio le chiavi sotto il vaso a fianco alla porta, il vaso della pianta di “aloe” mi risponde che non conosce l’“aloe”. ma che le troverà.

Entra con tutta la sua mole, il mio compare, il professore Corrado Lanza, ci abbracciamo quando mi vede, mentre tutti gli amici lo salutano cordialmente. Graziano gli va incontro e Corrado gli fa gli auguri stritolandolo in un abbraccio. La serata va avanti con pizzette, panini, tartine e ogni altro ben di Dio, innaffiando il tutto con il vino del Vesuvio. Ormai le bottiglie si sostituiscono ai bicchieri, e si scambiano anche i bicchieri, che si confondono e non si capisce più l’originario proprietario. A mezzanotte ci salutiamo, e ciascuno torna molto più allegro verso casa, Saluto Graziano e gli ricordo della caldaia, mi sorride e mi dice di stare sereno, Corrado Lanza ed io rimaniamo in piazza a chiacchierare, anzi gli dico che lo accompagno a casa, lui accetta, e subito mi dice di prendere due aspirine e andare a letto, mi ha sentito tossire spesso da Graziano. Gli dico: “A proposito, puoi dirmi qualcosa di più sulla febbre spagnola, oggi ho sentito per televisione proprio le ultime battute di un servizio su questa malattia che ha fatto molte vittime”.  “Beh, non è stata una febbre qualsiasi, nemmeno una epidemia, ma una vera pandemia, l’unica che noi conosciamo. Si chiama anche febbre suina e ti assicuro Filippo, fu un virus feroce, uccise forse più di cento milioni di persone in tutto il mondo, ma sono solo i dati conosciuti. Comparve tra il 1916 e il 1920 e quelli che ne furono colpiti furono più di cinquecento milioni. Si trasmette con la tosse o gli starnuti, colpisce le vie aeree e le cellule muscolari comprese quelle cardiache. Si muore rapidamente, le difese immunitarie precipitano e si muore di polmonite, meningite. Il virus è il Mixovirus dell’influenza, e la cosa più pericolosa, è la sua capacità di mutazione, che fa continuamente per sopravvivere. Basta così? Ma poi perché ti interessa tanto questa febbre spagnola, senti a me, fai come ti ho detto, pigliati due aspirine e mettiti a letto, domani altre due e te ne vai tra le nuvole. Ridemmo entrambi, ma io chiesi un’ultima cosa: “Può questo maledetto virus sopravvivere chiuso in un quaderno, o un libro, una scatola ecc, per molti anni?” “Beh è molto difficile perché non ha più niente da mangiare, però se muta, qualche speranza dovrebbe averla.” Siamo arrivati Filippo, ti ringrazio della bella compagnia, vienimi a trovare a casa quando puoi, e porta pure quella bella guagliona coi capelli rossi che mi presentasti tempo fa, ti aspetto, e scordati dei virus.

Ho raggiunto il cancello di casa che mi batteva forte il cuore, pensavo per tutta la strada al mio dito bagnato di saliva che passavo sui fogli e poi ripassavo sulla mia lingua una volta, dieci volte, tante volte, senza aver mai pensato che dalle pagine sicuramente infette da quel maledetto virus, potevo averlo trasferito nella mia bocca, e poi trasmesso anche ai miei amici alla festa di Graziano con i miei colpi di tosse. Possibilità remota forse, ma spaventosa.

Credo di aver bevuto abbastanza per oggi, liquori, vino, la testa un po’ mi gira anzi turbina, la nausea mi stringe la gola, raggiungo il water appena in tempo e rimetto vino liquori e pizzette. Metto la testa sotto l’acqua fredda del rubinetto e il freddo dell’acqua mi dà ristoro. Il getto caldo dell’asciugacapelli fa il resto, mentre lentamente riacquisto la mia lucidità.

Seduto sul divano, guardo quegli oggetti intorno a me come se fossero fantasmi senza pace, ombre vaganti a cui è negato il riposo.

La fine spaventosa di Eduardo mi ha scosso, ha lasciato aperto un varco in un passato mai riconciliatosi con il tempo e che ora chiede il rispetto e il silenzio su una storia vissuta da esseri meravigliosi travolti da un’epoca molto tormentata e ingenerosa.
Vado in cucina e stacco dei fogli di carta dal rotolo dell’asciuga tutto, i fiammiferi sul piano dei fornelli e ritorno nella sala, la pioggia ha ripreso a cadere senza furia, è finalmente un suono accettabile, familiare. Accendo la carta nel grande camino e comincio a strappare e bruciare le pagine del diario di Eduardo, provo commozione restituendo a questa storia una sorta di purificazione attraverso il fuoco.

Prendo dalla cassapanca un lenzuolo e lo metto nella fiamma, bruciano i delicati ricami, la fiamma aumenta e si alza, sento il calore che mi respinge, mentre altri lenzuoli aggiungo alla fiamma, i ricami delle tovaglie sembrano animarsi mentre si accartocciano nel fuoco. Brucio federette e tovaglie ricamate, mi lascio avvolgere dal calore, il diario divorato scompare in ceneri che spinte dal calore sale in alto, scomparendo nella cappa.

Dalle ultime lenzuola, con mio grande stupore cade sul gradino del basamento del camino una busta, una busta bianca che raccolgo in fretta. Illuminata dal riverbero della fiamma si colora di rosso porpora, mi seggo sul divano e apro questo inaspettato e sorprendente messaggio. Due fogli ripiegati e fittamente riempiti di scrittura, una mazzetta di dollari e lire italiane, leggo subito la firma:

Tua per sempre Mafalda.

Un tuffo al cuore è tutto quello che riesco a dire di quello che ho provato leggendo la breve frase di addio, scritta da Mafalda.

Mentre il fuoco nel grande camino divampa come un incendio purificatore, leggo con emozione la lettera.

Caro eterno amore mio,

 so che non leggerai mai più queste parole, sono le parole appassionate di una ragazza che ha avuto la fortuna di incontrarti, di avere da te la gioia dell’amore, che è un dono che nostro Signore dà ai suoi prediletti. Tu ed io siamo prediletti, siamo stati scelti da Lui per creare una famiglia regalandoci il bene di un bambino con cui creare un futuro e godere del creato.

Tutto questo si è scontrato con un mondo che non è stato capace di capire, né di perdonare.

Sei partito con l’aiuto di tuo padre per sfuggire alle ire e alle minacce di mio padre, non mi aspettavo ragionevolezza da lui ma neanche furia criminale, si criminale, non si chiede a un delinquente di farti sparire in fondo al  mare, perché così è andata, dovevano prenderti e farti scomparire per sempre, ma tuo padre l’aveva saputo  da altri  guappi, quale era l’orrendo proposito di mio padre e così ti ha fatto fuggire lontano per salvarti, ma tu questo lo sai quello che non sai è che mio padre mi ha costretto ad abortire “perdere” il bambino nostro.  Mio padre ha saputo tutto da mia madre, ha perso la ragione, mi ha chiuso in queste stanze e mi ha sequestrato ogni cosa, mi ha lasciato il corredo che già stava qui, la toletta e le lampade, ho dormito per terra su una coperta fino a gennaio di quest’anno, Lucietta mi ha portato da mangiare una volta al giorno, solo per la pietà di Rosolina.  A novembre dell’anno scorso è venuta una donna, che mi ha costretto ad abortire, ho avuto una emorragia, e stavo per morire, grazie a mia sorella Rosolina e alle preghiere sono ancora viva.

Nessuno ha potuto convincere mio padre a desistere da questo folle proposito, lo scandalo non si è potuto evitare, il Comandante, mio promesso, Mattia Serre, mi ha subito ripudiata, offeso ha ritirato l’impegno di matrimonio che aveva con me.

Il tuo ricordo amor mio mi ha aiutato a perdonare mio padre e anche mia madre, che per tutto il tempo non si è mai opposta alle volontà perverse di mio padre.

Anche io sono morta, sono morta per i miei desideri, per la mia voglia di vivere con te, per la mia famiglia, per tutti i miei amici, per il mio lavoro di insegnante e tutte le mie aspirazioni, e per la mia vita civile:

 Ho accettato di entrare in convento.

Questa è la condizione che ha messo mio padre per uscire da questa prigione. Ho chiesto di entrare delle suore Domenicane figlie del Santo Rosario, nel Santuario della Beata Vergine Maria a Pompei.

Ho mandato due casse del mio corredo da sposa alle orfanelle del convento, a Pompei, Rosolina mi manderà la terza a dicembre prossimo, quando io comincio il noviziato.

Lucietta, mi ha portato il pranzo la settimana scorsa, ha detto che è venuto a casa nostra, suo cugino Giovanni il nipote di Angiolina, da Procida e ha lasciato un pacchetto per me, me lo ha portato di nascosto sotto la gonnella, dentro c’erano le tue povere cose una mazzetta di dollari e lire, e il tuo diario. Ho pianto tutta la notte, il mio cuore è straziato da tutto quello che hai sofferto, mi consola solo il fatto che tu te ne sia andato avendo davanti agli occhi il mio volto ancora incantato dal tuo sguardo, e l’immagine del nostro bambino mai nato.

Nascondo tutto in quest’ultima cassa del corredo che Rosolina mi manderà, chiudo e porto le chiavi con me, nessuno aprirà mai più questo baule, rimarrà per sempre il custode dei nostri segreti di ragazzi innamorati.

Tua per sempre Mafalda.

Il fuoco del camino ha bruciato anche gli ombrellini e la busta con quest’ultima lettera. Il mio cuore è diventato piccolo, piccolo quando ho messo sulla fiamma anche la cloche color tortora. Il fuoco ancora bruciava, io avvolto nel plaid mi sono addormentato sul divano.

Al bar dell’aeroporto alle nove e venti Josèka ancora mi aspettava seduta davanti al suo caffè ormai freddo, l’ho baciata mentre la tiravo su dalla sedia e abbracciarla forte, molto forte, lei ha sorriso e mi ha chiesto senza fiato: “Ma che succede?”, ho risposto la prima cosa che mi è venuta in mente strizzandole l’occhio: “Ogni guerra è giostra”.