“BOMBSHELL – LA VOCE DELLO SCANDALO”: BASTA CULTURA DELLO STUPRO

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di Mariantonietta Losanno 

Il 2020 è stato l’anno peggiore per i femminicidi, il peggiore in termini di percentuali dal 2000: è stato l’anno in cui l’incidenza della componente femminile nel totale degli omicidi è stata del 40,6%, cioè la più alta di sempre. Proprio in questi giorni, si è (ri)aperto il dibattito sulla cultura dello stupro: se n’è riparlato per il video di Beppe Grillo in difesa del figlio indagato per stupro. E ancora, si è parlato molto del fenomeno del “catcalling”, ossia le molestie di strada: molestie sessuali, commenti indesiderati, gesti, suonate di clacson, fischi, avance sessuali persistenti. Mai come in questo particolare periodo storico, allora, assume un valore particolare una pellicola – basata su fatti realmente accaduti – come “Bombshell – La voce dello scandalo”. Jay Roach ricostruisce il caso Roger Ailey, potente capo di Fox News licenziato perché accusato di molestie sessuali da diverse dipendenti. Un dramma coraggioso e serrato, che intende porre il pubblico – soprattutto quello maschile – di fronte a questa realtà, spingendolo a riflettere su cosa voglia dire ammettere di avere subito molestie, su quanto sia difficile lottare e resistere in un sistema così potentemente misogino dove qualsiasi cosa può essere usata per sminuire atteggiamenti inammissibili. 

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Le tre narratrici si rivolgono direttamente al pubblico, in modo che il messaggio sia più d’impatto, evitando, però, le trappole della retorica: “Bombshell” racconta un fatto di cronaca avvenuto un anno prima del caso Weinstein e della nascita del #MeToo ed allarga lo sguardo anche a riflettere sul potere dei media e su quanto la politica se ne serva. Jay Roach, dopo gli esordi comici con i vari Austin Powers, dà vita ad un cinema impegnato, dalla sceneggiatura tagliente. Charlize Theron, Nicole Kidman, Margot Robbie: tre donne, tre percorsi di carriera differenti, tre punti di vista e temperamenti diversi. La scelta è tra essere molestate o essere disoccupate. Tutte giornaliste di Fox News Channel, la rete di informazione più seguita degli Stati Uniti d’America. Le donne vengono mortificate, usate, messe in vetrina come “merce”. La regola è andare in onda sempre con più di una gamba scoperta: uno strano modo di fare informazione, ma l’unico a ritenersi “giusto”. Tutto ha inizio con la prima denuncia, a cui seguono tutte le altre. Quante persone, ancora oggi, giudicano chi non denuncia immediatamente? Come se ci fosse una scadenza da rispettare, come se non servisse un lavoro psicologico per ricostruire i fatti. Ci sono donne che conducono una vita normale per anni, facendo finta di niente e poi, all’improvviso, realizzano il fatto. Altre lo comprendono quando ne sentono parlare, leggono fatti di cronaca o sentono storie di survivors simili alla loro. Il tempo non lo può decidere né lo stupratore, né il codice penale, né tanto meno la morale. All’improvviso si avverte il dovere – ed il coraggio – di dover reagire a quella routine lavorativa (ma non solo) fatta di battute sessiste, violenza psicologica e abusi. “Bombshell” combatte l’abuso di potere, lotta per tutte le donne a cui non serve altro che appoggio e soprattutto sicurezza legale per potere parlare. La pellicola prende posizioni nette, parlando nel modo più chiaro possibile. Il finale, poi, è tanto positivo quanto negativo: una sola battaglia vinta (solo perché in qualche modo punita, ma non si può parlare di vittoria per il protrarsi inevitabile dei traumi degli abusi) non cambia una situazione così drammatica. 

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È importante comprendere che denunciare vuol dire dover ricostruire i fatti, facendo attenzione ad ogni minimo dettaglio e, soprattutto, rischiando di non avere credibilità: fin troppo spesso ci si accanisce più verso l’accusatore che verso l’accusato, quasi come se la vittima dovesse giustificarsi. Nessun tempo e nessuna reazione potranno mai sminuire la sofferenza e potranno mai porre la vittima nella condizione di non poter chiedere giustizia per ciò che ha subito. C’è ancora chi ritiene di avere il diritto di accusare una vittima di non aver denunciato subito o di non aver reagito adeguatamente alle avance – magari non avendo avuto la prontezza di sferrare un pugno – o addirittura di aver compiuto qualsiasi azione precedentemente alla denuncia, come a voler dire che se si ha avuto la forza di condurre una vita normale, allora il dolore della molestia subita non sarà stato poi così forte. È proprio questo il punto: il dolore non andrebbe mai giudicato, di qualsiasi natura sia. Come per una reazione ad un lutto, che segue un iter differente a seconda delle persone, così per una violenza. E questo non vuol dire aderire ad un femminismo radicato: significa solo essere umani. Non bisogna essere femministi per rispettare una vittima, per supportarla e non giudicarla. 

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“Bombshell” è una forte critica sociale, non solo al singolo molestatore, ma anche a chi giudica le donne che combattono, indagando sugli aspetti personali e caratteriali della vittima (abbigliamento poco “consono”, sorrisi troppo frequenti, gentilezza che viene intesa come consenso) per cercare un alibi e “scusare” chi ha commesso quegli atti. “Bombshell”, che significa letteralmente bomba, intesa come ordigno esplosivo, ma anche come “notizia bomba”, o ancora come “sei una bomba” (cioè uno schianto), non risparmia nomi e cognomi, non esita e mantiene costantemente severità. Non ci sono solo le singole storie, il contesto analizzato è molto più ampio: “Bombshell” parla di infinite storie, di potere, di vergogna e coercizione, di un sistema malato che ci si augura di riuscire a ripulire.