“REDACTED”: BRIAN DE PALMA “SFRUTTA” IL MEZZO CINEMATOGRAFICO PER DENUNCIARE UNA VIOLENZA

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di Mariantonietta Losanno 

Il contesto bellico non è nuovo a Brian De Palma che si era già cimentato, nel 1989, con “Vittime di guerra” (il titolo originale è “Casualties of War”), in cui poneva il pubblico in una situazione di spettatore/voyeur di un crimine sessuale. Come ogni altro film di De Palma, “Vittime di guerra” ha l’intento di raccontare una storia di “oltraggio al pudore” e lo fa inserendo la vicenda in un (altro) contesto di orrore – la guerra del Vietnam – potendo così raccontare la perdita di una “doppia” innocenza e di un “doppio” pudore: dall’orrore del cinema – che mette in scena uno stupro –  all’orrore della Storia. “[…] Improvvisamente lascio esplodere la situazione e ci si ritrova a livello di un cinema verité orrido e realistico. Mi piace soprattutto prendere il pubblico alla sprovvista. Dargli la sensazione di trovarsi su un terreno familiare e poi brutalmente, senza preavviso, violentarlo. Lo spettatore non deve tornare a casa confortato, rasserenato. La vita non è così. L’inconscio è sempre là, che attende di manifestarsi, anche quando crediamo che la logica abbia risolto ogni cosa”, ha detto De Palma in un’intervista, a conferma di quanto appena analizzato. 

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La vicenda di “Redacted” è ispirata ad un fatto di cronaca realmente accaduto nella città rurale di Al-Mahmudiyah in Iraq (nonostante, poi, il film si sviluppi mescolando “finzione” e realtà, attraverso spezzoni di documentari, video presi da YouTube e dal blog di un soldato americano in missione in Iraq): nel 2006 un gruppo di militari hanno stuprato una ragazzina di quindici anni prima di bruciarla e di uccidere tutti i suoi familiari. La storia viene raccontata alternando vari punti di vista – cercando, così, un equilibrio tra le diverse posizioni – e soffermandosi sulle reazioni degli esponenti dei mezzi di informazione e quelle della popolazione autoctona irachena. La prima necessaria riflessione non parte dall’orrore della violenza quanto dal comportamento dei colpevoli; dei militari coinvolti nella vicenda, infatti, soltanto due compiono l’omicidio, mentre un altro riprende la vicenda con una telecamera e un altro ancora resta inerme ed incapace di fermarli. De Palma, dunque, inserisce temi politici, etici, morali, umani; analizza una vicenda soffermandosi – anche – sull’idea di colpevolezza implicita ed esplicita e sull’importanza dei media e sulla manipolazione dell’informazione e della verità. Per farlo si serve di un’incredibile quantità di canali audiovisivi, dalla telecamera di un soldato al documentario interno al film, dalle immagini televisive alle telecamere di sicurezza, dai blog ai filmati su YouTube, dai servizi giornalistici in diretta alle microcamere nei caschi. 

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Come è possibile, poi, interpretare la decisione di mescolare finzione e realtà? Che cosa può voler dire “romanzare una violenza”? E ancora, si può parlare realmente di finzione all’interno di questa vicenda? In realtà, è tutto reale. È solo che la storia necessitava di essere riadattata allo schermo, o forse necessitava di essere realizzata inserendo altri elementi – che non si sostituissero a quelli reali -che servissero ad aumentare l’impatto della vicenda. È che, trattandosi di uno stupro, potremmo anche ritenere – per difenderci – troppo sadico l’intento di aumentare l’impatto; eppure, proprio perché si tratta di una violenza, è più che necessario. De Palma “finge” di documentare un evento realmente accaduto per poter far trapelare diverse prospettive: sperimenta un nuovo tipo di comunicazione cinematografica simulando lo stile delle inchieste giornalistiche (e citando implicitamente i film girati con telecamere amatoriali come “The Blair Witch Project”). Il risultato è un’opera diretta e brutale che alterna scene di violenza a cui risulta impossibile assistere, a momenti di “ilarità” o a racconti in cui emergono i sentimenti dei soldati. Appunto, non c’è alcuna finzione: il regista si serve di questi mezzi cinematografici per rendere la vicenda ancora più reale. Cosa c’è di ancora più reale di una violenza o della guerra in Iraq? 

De Palma forse non avrebbe avuto la necessità di una commistione tra documenti reali e ricostruzioni soggettive, ma la sua scelta non comporta una manipolazione o una strumentalizzazione del dolore e della sofferenza altrui; è finalizzata, anzi, ad una riflessione più profonda.

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Il titolo del film “redacted”, ovvero “redatto”, si riferisce all’atto di preparare un testo per la pubblicazione, censurando le informazioni sensibili: vale a dire “oscurare”, “occultare”, “presentare in un’altra versione”. In fondo, è lo stesso regista a parlare del film come un insieme di immagini “redatte” e “architettate” – la natura fittizia di quanto si sta per osservare viene persino esplicitata in apertura del film – ma solo per aggiungere elementi e far diventare il “vero ancora più vero”, mai per “ammorbidire” la narrazione. In questo modo, De Palma, – oltre a soffermarsi sul significato della censura – ci pone una domanda: è ancora possibile, oggi, con il progressivo collasso dei sistemi tradizionali di accesso all’informazione – dalla carta stampata alla tv o a Internet – trovare dei punti di riferimento per poter interpretare il mondo che ci circonda? Per poter costruire una propria idea politica o morale? Sia per quanto riguarda la Guerra del Golfo così come per l’indicibilità dei crimini sessuali, è difficile riuscire a rispondere a questa domanda. Il senso di impotenza e di rabbia prevalgono, così come l’ignoranza, il razzismo, l’inutilità della guerra. “Redacted” non mostra altro che la verità. È un film “sporco” e feroce, una prova di tecnica cinematografica eccezionale, un’opera lucida che si sofferma sul potere enigmatico delle immagini e sulla loro capacità di creare “senso”. I media rappresentano un modo per documentare o distorcere la realtà: De Palma se ne serve per redigere uno spietato atto di accusa.