di Mariantonietta Losanno
“Falcon Lake”, opera prima di Charlotte Le Bon e film di apertura del concorso internazionale lungometraggi – composto da dodici film – della 40esima edizione del Torino Film Festival, è un racconto di corpi e di immaterialità; di fantasmi che “fanno compagnia”, di ferite che sanguinano e fragilità “annegate”. Il film (che ha partecipato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes di quest’anno, ed è ispirato alla graphic novel “Une soeur” di Bastien Vivès), racconta il legame – che assume in modo irreversibile anche i tratti della competizione – tra due adolescenti che hanno bisogno di conoscersi e essere riconosciuti. Non si tratta (solo) di un percorso di formazione; la pellicola si concentra – adattando i temi all’atmosfera – su quelle “ombre” che, paradossalmente, aiutano a definirci, che, una volta conosciute come “presenze non intrusive”, ci consentono di esplorare anche le emozioni più complesse. La fretta di “arrivare”, però, può impedire di aspettare che questo processo interiore si concretizzi. La sensazione spaventosa di aver trovato qualcuno di importante può portare a mettere in atto scelte di ribellione che esprimono un bisogno di accettazione e di fiducia.
Ci si condanna da soli, alla fine, non sapendo come “vincere” una sfida contro se stessi. Ci si perde, rifiutando le proprie paure e pensando di superarle senza considerarne la complessità. Perché ci si illude di essere onnipotenti, invulnerabili nel corpo e nello spirito. I colori seguono i temi, schiarendosi negli attimi di sole e di leggerezza che vivono i ragazzi e assumendo toni più scuri nei momenti più cupi e angoscianti. Il film, poi, sfrutta gli spazi fisici associandoli a quelli psicologici: c’è la foresta oscura che suscita inquietudine, la casa che condividono i due ragazzi (perché si trovano lì insieme ai loro genitori) che rappresenta il luogo in cui ci si confessa e ci si espone, le acque del lago che simboleggiano la paura ma anche il desiderio – e l’incoscienza – di dimostrare di essere in grado di “gestirle”, di saper controllare se stessi e i propri limiti senza dare tempo e modo affinché si definiscano in modo più chiaro.
L’esordio alla regia di Charlotte Le Bon (“L’Écume des jours” (Michael Grondy), “The Walk” (Robert Zemeckis) è un’opera spiazzante, ma insieme commovente, che si muove perfettamente in linea con le modalità del funzionamento mentale impulsivo del pensiero e dell’emotività adolescenziali. “Falcon Lake” mette in scena quei momenti cruciali di “iniziazione”: all’amore, alla paura, al dolore. E lo fa “mantenendosi a galla” tra un teen movie e un’opera dal fascino spettrale che si pone come riferimento “Psyco” di Hitchcock (di cui è presente anche il poster nella camera dei ragazzi) e le sue atmosfere che continuamente depistano e spaventano, per poi svelare “il caos appena sotto la superficie levigata della civiltà, la barbarie come sempre tra di noi, dentro di noi”, come ha descritto Peter von Bagh.
Il vero oggetto della paura è la non accettazione da parte degli altri, e quindi la solitudine, l’abbandono; è per non perdere l’appoggio dell’altro – in una fase in cui dall’accettazione si circoscrive la propria personalità – che ci si spinge oltre. Perché si rincorre il bisogno di sentirsi definiti e non evanescenti, “mordendo”, compiendo azioni insensate che potrebbero portare ad ottenere quel tanto desiderato riconoscimento di essere “corpo” e non “astrattezza”.